PD addio?

La scissione che sta maturando nel Partito Democratico (PD) è di per sé una buona notizia, visto il ruolo nefasto pluridecennale svolto da questo partito (non il solo) ai danni dello Stato e degli strati popolari. La rottura sul ritorno alle urne in autunno (Zingaretti) oppure sulla fiducia ad un governo di transizione che sposti la data del voto (Renzi), un voto che potrebbe tenersi oltre il 2020, è qualcosa di più di una congiunturale frizione tattica di posizione nel partito.

L’attuale segretario del PD, Nicola Zingaretti, che controlla il partito avendo marginalizzato i renziani, mira a togliere l’egemonia che Renzi ha sui gruppi parlamentari, espressione, alle elezioni del 2018, di una sua certosina selezione nelle liste che marginalizzò le altre componenti del partito, quella zingarettiana in testa. Se si andasse subito ad elezioni, come vuole Zingaretti per i suoi interessi di frazione, Renzi vedrebbe fortemente ridimensionato il suo ruolo.
Tra fare la scissione ‘dopo’ o ‘adesso’, la tempistica dell’interesse di frazione personale di Renzi è per l’oggi e già circola il nome della sua creatura: Azione civile. Renzi ha bisogno di tempi ‘tecnici’ per costruire il partito ed un governo di transizione servirebbe allo scopo.
A rendere ancora più confusa e critica la situazione nel partito ci sono figure come Franceschini, Del Rio e Orfini, che ventilano una ‘terza via’, disponibili a sostenere un governo “istituzionale”, ma non “di scopo” e “non a tempo”.

La prospettiva di un PD che si spacchi in due tronconi, possibile buon viatico in vista di una loro marginalizzazione, se non –auspicabilmente– dissoluzione, è quindi una buona notizia. L’essere il PD –sul fronte ‘sinistro liberale’– referenza dei principali gruppi affaristici del Paese e dei ‘poteri esterni’ (geopolitici e finanziari) ad esso aprirà un ‘vuoto’ di referenza e darà vita a grandi manovre per riempirlo con una forza ‘sostitutiva’. Gli effetti potrebbero investire il M5S, a sua volta chiamato a fare i conti (già all’interno) con la discutibilissima gestione dell’azione di governo impressa da Di Maio e dalla sua cerchia tanto su questioni particolari (pacchetto sicurezza, TAV, Tap, Ilva, Benetton in Alitalia, voto commissione UE, ecc.) quanto su indirizzi più generali e decisivi (innanzitutto la sostanziale accettazione dei vincoli europei, ostativi alle sbandierate politiche di rilancio economico e sociale).

Gli spazi, perché possano avanzare le istanze di emancipazione nazionale dai vincoli europei e dalla sudditanza atlantica, a ben vedere si ampliano, anche con la crisi del governo Conte (governo spesso surrealmente definito “sovranista” dalla grancassa mediatica e da certi apparati politici non solo interni al Paese). L’ascesa della liberista, atlantica ed anti-nazionale Lega di Salvini proprio sul terreno della sovranità, dell’indipendenza dai vincoli euro-atlantici e di una ben diversa prospettiva di società potrà essere fondatamente contrastata.
Si presti attenzione a contrastare anche chi –‘sinistra liberale’– avrà interesse a riproporre l’antiberlusconismo che fu con l’antisalvinismo di oggi, per non produrre alcunché di alternativo né nel perseguimento di ben diverse politiche economiche e sociali, né su quello di un’indispensabile sovranità politica condizione preliminare ineludibile e, quindi, principale per la costruzione di un’effettiva alternativa politica e di società.
Il terreno principe di lotta su cui far emergere molteplici nodi (questioni sociali come scuola, sanità, ambiente, ecc. ed interessi di alcuni Stati del continente ad un indebolimento ulteriore se non alla disgregazione nazionale dell’Italia) è quello del “regionalismo differenziato” che non a caso vede convergere un arco trasversale di forze dal PD alle destre (Lega in testa) passando per settori del M5S.

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