Pro-euro e no-euro: curiose convergenze sull’«errore dell’euro» e verità inconfessabili

Alcuni, tra le ‘alte sfere’ (economisti, politici, intellettuali, ecc.), affermano pubblicamente che entrare nell’euro è stato un errore, ma che –visto che ci siamo– non è più possibile tornare indietro. Sempre più numerosi, questi fautori dell’euro parlano in tali termini perché in difficoltà a negare l’evidenza degli sconquassi prodottisi via via nel tempo, sconquassi che pressoché ogni anno vengono pateticamente esorcizzati con fantasticherie e trucchi contabili di indicatori economici di riprese assolutamente non percepite o comunque ininfluenti ai più.
In altri termini sostengono questo: si è imboccata una strada senza uscita, sarebbe stato meglio non prenderla ma, ora che si è a questo punto, tornare indietro non si può. Insomma, è l’apoteosi del disprezzo dell’intelligenza propria e di quella altrui. Poco importa se per trenta denari o per cieco fideismo.

Altri, tra i critici anche radicali del combinato UE-euro, sostengono che Maastricht (1992) fu un errore e che anche entrare nell’euro (2002) lo sia stato. La responsabilità di esserci entrati e delle sue conseguenze ricade solo sui politici italiani della cosiddetta “seconda Repubblica” e che, per sanare questo errore, bisogna recedere.

I primi e i secondi, quindi, convengono sull’errore dell’euro. Una curiosa convergenza che sembrerebbe consolidare l’assunto dell’ “errore”.
Da molto tempo, come “Indipendenza”, parliamo piuttosto di “razionalità strategica” dell’Unione Europea, dell’euro e delle non casuali crisi. Altro che errori! A ripercorrere, dall’immediato secondo dopoguerra, il processo pluridecennale che ha preparato, costruito e messo in moto (dopo l’implosione dell’Unione Sovietica nel 1991) questo “errore”, è palese l’infondatezza di quelle narrazioni fantasmagoriche.

Ora, si possono capire i primi, i pro-euro. Fanno il loro mestiere. Maldestramente, perché, se si persevera nell’errore –di più: se si introducono modifiche che lo consolidano, lo aggravano– vuol dire che non lo si ritiene un errore.
Ma i secondi, quei no-euro? Certo, diversamente dai primi appaiono più convincenti: sostengono che l’errore si può correggere con il recesso dall’euro, anche dai Trattati precisano (correttamente) altri.
Perché, però, parlare di “errore”? Perché precisare sempre che è stato commesso “soltanto” dai “politici italiani della Seconda Repubblica”? Perché concedere ‘all’avversario’ un’attenuante in un processo che, sul piano economico, finanziario e sociale, ha prodotto e sta producendo esattamente quello per il quale è stato pensato? Diverso il discorso sulle finalità geopolitiche…

Quando si parla di errore commesso dai soli politici italiani della Seconda Repubblica, di fatto si vuole evitare di fare i conti con due questioni: 1. le responsabilità delle classi (sub)dirigenti della Prima Repubblica (da De Gasperi a Berlinguer, per limitarci ad alcune punte apicali dell’epoca), essendo la questione dell’unione europea federale con moneta unica già perseguita allora (il punto, peraltro, è già ‘dentro’ il Manifesto di Ventotene, a ben vedere bussola della Prima Repubblica atlantica) e 2. il ruolo svolto dagli Stati Uniti.

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