Tesi su marxismo e comunismo

Quest’anno ricorre il centenario della nascita del Partito Comunista d’Italia, una ricorrenza che offre più di uno spunto utile per un bilancio storico del movimento comunista italiano, nonché per una riflessione critica riguardante più in generale il marxismo, non solo sul piano storico-politico ma anche sul versante teorico e filosofico.

Sulle pagine di Indipendenza questi temi sono stati affrontati a più riprese nel corso degli anni, grazie al contributo sia di autori come Costanzo Preve, Gianfranco La Grassa e Massimo Bontempelli sia da parte di militanti di Indipendenza stessa, la cui formazione è stata contrassegnata dalla lettura, oltre che degli autori citati, dei più svariati contributi, marxisti e non: si possono citare in ordine sparso figure come Domenico Losurdo, Karl Polanyi, Immanuel Wallernstein, Giovanni Arrighi, senza dimenticare il fondamentale contributo politico e culturale dei movimenti di liberazione nazionale che da sempre hanno costituito un nostro fondamentale riferimento politico, dai baschi agli irlandesi, dai corsi ai sandinisti ai palestinesi fino alle esperienze bolivariane e ai movimenti di liberazione che nella seconda metà del Novecento hanno condotto con successo le lotte anti-coloniali, coniugandole con una prospettiva socialista. A tale lavoro teorico si aggiunga quello di ricerca storica che sulla rivista è stato dedicato a ricostruire, fuori da ogni agiografia e schematismo semplificante, la posizione del PCI rispetto al processo d’integrazione europea nelle sue varie forme di concretizzazione realizzatesi nel corso degli ultimi decenni.

Queste tesi si propongono di essere da un lato un primo tentativo di sistematizzazione di tali molteplici apporti e riflessioni; dall’altro, lungi da ogni presunzione di esaustività, vogliono al tempo stesso costituire una base di partenza per ulteriori riflessioni, discussioni ed elaborazioni, in linea col principio che la teoria non può mai ingessarsi diventando un corpus di dogmi immutabili e indiscutibili, ma deve essere l’esito di un incessante processo di ricerca e di apprendimento determinato dalla concreta realtà storica e dalle sue trasformazioni, e pertanto non può mai pervenire a conclusioni definitive.

CONSIDERAZIONI PRELIMINARI E DI METODO

1. Il pensiero di Marx, il multiforme filone politico-culturale denominato marxismo e i movimenti politici che ad esso si sono ispirati (socialisti e comunisti) hanno costituito storicamente il tentativo più coerente di opposizione al capitalismo, l’unico capace di dar vita in alcuni casi ad esperienze, più o meno solide e durature, alternative al capitalismo stesso; in altri casi, all’interno delle società capitaliste, di conquistare diritti politici e sociali prima impensabili.

2. Il 1989 ha certificato una sconfitta storica di quel movimento politico, la quale non può in alcun modo essere giustificata soltanto facendo appello alle consolatorie categorie di tradimento, revisionismo, complotto, ecc. Senza con questo dimenticare le particolari condizioni geopolitiche ostili con cui i sistemi socialisti si sono dovuti storicamente misurare (basti pensare alla Russia post-rivoluzionaria e all’Unione Sovietica fino alla Seconda Guerra Mondiale, per arrivare alla Cuba odierna vittima di un embargo che dura da ben 60 anni), occorre prendere atto delle disfunzionalità, delle contraddizioni e degli aspetti opprimenti di quei sistemi, pur riconoscendone i meriti e le indubbie conquiste sociali (fattore che spiega peraltro il fenomeno della cosiddetta «ostalghia» che caratterizza diversi Paesi ex-socialisti).

3. Una seria riflessione sulle ragioni della sconfitta storica del comunismo novecentesco non può non investire anche il pensiero al quale il movimento stesso si è ispirato, vale a dire Marx e i successivi principali esponenti del marxismo politico e filosofico.

A tale proposito, sono necessarie una serie di considerazioni preliminari, volte a scongiurare una serie di equivoci e fraintendimenti.

4. In primo luogo occorre distinguere il pensiero di Marx dal marxismo, o per meglio dire dai marxismi. Questa operazione però –è bene precisarlo da subito– non ha come finalità quella di dar vita alla discutibile dicotomia “Marx buono vs Marxismo cattivo”, la quale non fa altro che riproporre la tendenza (purtroppo comune a tanto marxismo) di considerare gli scritti del pensatore di Treviri come a dei testi sacri, i cui contenuti non possono essere soggetti ad un vaglio critico ma devono essere unicamente interpretati nella maniera più corretta.

Al contrario, riteniamo che:

– esistono certamente elementi tipici del marxismo che si rivelano discutibili in quanto si discostano dal pensiero di Marx, il quale è certamente meno determinista e dogmatico rispetto a quella sistematizzazione operata da Engels e Kautsky che ha dato origine al marxismo secondinternazionalista. Le diverse derivazioni successive (leninismo, luxemburghismo, bordighismo, trozkismo,  maoismo, operaismo, ecc.), al netto delle differenze ideologiche, si sono spesso rivelate ugualmente dogmatiche;

– esistono però allo stesso tempo tematiche (contesto più favorevole alla rivoluzione, importanza della questione nazionale, soggetto rivoluzionario) su cui la riflessione successiva, nello specifico quella leniniana con le sue derivazioni, si è rivelata più efficace e corretta di quella marxiana;

– vi sono parimenti numerosi aspetti in relazione ai quali gli stessi limiti accomunano il pensiero di Marx e il marxismo (monoclassismo sociologico, significato e ruolo dello Stato). Vi è inoltre da sottolineare che questo principio può valere anche rispetto alla questione nazionale: nonostante l’importanza ad essa attribuita da Lenin, Mao e altri esponenti marxisti (diversamente da Marx, sebbene quest’ultimo non ne fosse indifferente), essa non arriva mai ad assumere un’autentica centralità e a procedere di pari passo con la questione sociale. Ciò a causa di un economicismo deterministico che affonda le sue radici in alcuni tratti del pensiero di Marx e che il marxismo assume in maniera spesso ancor più rigida.

5. Se si vuole comprendere autenticamene il pensiero di Marx (considerandone sia la genialità che i fisiologici limiti) esso non può essere considerato come un blocco monolitico e coerente, bensì come il frutto di un processo in costante evoluzione. Occorre quindi tenere presente che gli scritti giovanili e quelli della maturità non possono avere lo stesso peso ed analogamente si dovrebbe ridimensionare l’influenza di quelle opere che lo stesso Marx ha in seguito disconosciuto.

6. Per altro verso non ci si può esimere dall’affrontare la questione dei diversi marxismi e intendiamo farlo partendo dalla dicotomia tra marxismo occidentale e marxismo orientale per come è stata presentata da Domenico Losurdo nel suo libro “Il marxismo occidentale”.

– II marxismo orientale (vale a dire quello legato a tutte le esperienze di liberazione nazionale e coloniale, nella maggior parte dei casi vincenti sul piano rivoluzionario e che quindi si sono dovute confrontare anche col difficile compito di governare) è stato caratterizzato da successi e conquiste epocali, ma anche da contraddizioni, tragedie e in alcuni casi orrori. Per tale ragione costituisce da un lato un riferimento ineludibile da cui partire e allo stesso tempo da criticare in maniera serrata, pur riconoscendone gli indubbi meriti.

– Il marxismo occidentale (vale a dire tutte quelle correnti che, per lo più in Occidente e nell’arco di tutto il Novecento, hanno assunto posizioni critiche nei confronti del leninismo e delle sue derivazioni) è invece stato caratterizzato dal connubio tra radicalismo teorico e incapacità di produrre effetti reali sul piano pratico. Ciò a causa di un approccio essenzialmente astratto, in evidente antitesi con la concretezza del marxismo orientale. Per tale ragione esso va rigettato senza se e senza ma, evitando quindi di fondare la critica alle esperienze del socialismo reale con le argomentazioni tipiche del marxismo occidentale.

NODI CONCETTUALI

7. LA QUESTIONE NAZIONALE

Per Indipendenza –si sa– questione nazionale (quella cioè relativa alla sovranità e all’indipendenza) e questione sociale (quella relativa alle ingiustizie di classe e a ogni forma di sfruttamento) sono inscindibili, sono due gambe che devono camminare insieme. Amiamo infatti dire che la questione nazionale è principale, la questione di classe è fondamentale.

Come relazionarci quindi, a tale proposito, con Marx e i marxismi?

– Cominciamo dal pensatore tedesco: nell’arco del suo itinerario politico e filosofico Marx ha modificato le sue posizioni giovanili, riconoscendo via via una certa importanza alla questione nazionale (basti pensare all’appoggio dato alle cause irlandese e polacca), sia pure in maniera non del tutto coerente e sistematica e comunque non rompendo mai del tutto con un atteggiamento fondamentalmente eurocentrico. L’influenza hegeliana ha avuto certamente un peso in tal senso, favorendo una concezione talora eccessivamente rigida e schematica, nell’ambito della quale i popoli marginali (per lo più quelli extra-europei) non di rado erano considerati come fuori o ai margini della Storia. Una posizione, questa, che a dire il vero è stata affermata in particolare da Engels.

– Rispetto al contributo di Marx ed Engels (e ancor di più rispetto alle posizioni della Seconda Internazionale) appare enorme il passo in avanti compiuto da Lenin, con il suo riconoscimento dell’importanza della questione nazionale sia sul piano teorico che su quello della prassi. A partire dalle tesi leniniane un ulteriore sviluppo in tal senso sarà quello compiuto da Stalin (sebbene con esiti talvolta discutibili e comunque circoscritti all’ambito dell’analisi e degli scritti teorici, dato che la pratica è spesso risultata essere in contraddizione con tali premesse) ma soprattutto da tutti i protagonisti delle lotte di liberazione nazionale e anti-colonialista, da Mao ad Ho Chi Minh, da Castro a Sankara, eccetera. È da sottolineare a tale proposito che proprio queste ultime esperienze influenzeranno in maniera decisiva quei movimenti di liberazione nazionale che nel cuore dell’Europa daranno vita alle esperienze politiche più interessanti della seconda metà del XX secolo, in Irlanda, nei Paesi Baschi, in Corsica. Non a caso tra le principali fonti di ispirazione politica e culturale di Indipendenza. Non vanno poi dimenticati i contributi più o meno innovativi o più o meno in continuità rispetto alle tesi leniniste, offerti da figure di spicco del marxismo italiano e non, quali Gramsci, Togliatti, Dimitrov.

A questo punto si rende però necessaria una importante precisazione: l’interpretazione della questione nazionale da parte di Lenin (e poi di Stalin), pur rappresentando un indubbio progresso rispetto alle ondivaghe posizioni marxiane ed engelsiane, rimane prigioniera di una concezione determinista e fondamentalmente economicista della Storia, che risale allo stesso Marx. È vero che l’importanza del fatto nazionale è riconosciuta da Lenin, mentre Stalin arriverà a sottolineare anche la sua straordinaria persistenza; tuttavia entrambi finiscono col dare per scontata l’estinzione delle nazioni in un futuro più o meno lontano, in vista di un’unificazione del genere umano che dovrà essere anche politica e culturale. Ciò costituisce senz’altro un limite decisivo del leninismo, ma le esperienze più interessanti di lotte di liberazione citate poc’anzi hanno attinto a quel corpus di idee reinterpretandolo e riadattandolo alle situazioni concrete (peraltro con lo stesso spirito con cui Lenin reinterpretò il pensiero marxiano, il cui effetto pratico fu l’Ottobre del 1917, «una rivoluzione contro il Capitale», secondo la definizione datane dallo stesso Gramsci). Al contrario, laddove il pensiero di Lenin è stato assunto come un dogma da incorporare in un pantheon di divinità corrispondenti ai vari maestri del pensiero marxista (atteggiamento incentivato dalla Terza Internazionale, sia pure alla luce di una serie di attenuanti determinate dalle circostanze storiche), il leninismo si è rivelato clamorosamente inadeguato nel comprendere la centralità della questione nazionale.

– Viceversa, il cosiddetto marxismo occidentale, in particolare tutti quei filoni (a volte molto diversi tra loro) critici con Lenin e con qualsiasi forma di socialismo reale, ha finito col prendere come riferimento essenzialmente gli scritti giovanili di Marx, quelli cioè dove, accanto a un vivo gusto per la polemica e lo slogan, poca o nessuna considerazione veniva data alla questione nazionale. Sono questi gli ambienti che liquidano detta questione affermando che «il proletariato non ha nazione», dimenticando però che la celebre affermazione del Manifesto continua affermando che «deve farsi classe nazionale». Come già specificato nelle considerazioni preliminari (tesi n. 6), è del tutto evidente la netta e totale alterità tra la prospettiva di Indipendenza e qualsiasi declinazione del cosiddetto marxismo occidentale.

8. LO STATO

Appare difficile negare l’esistenza di un legame tra i limiti della concezione leninista della nazione e quella dello Stato. Va detto peraltro che, se nel primo caso il contributo di Lenin aveva indubbiamente costruito un progresso rispetto alle concezioni marxiane, in relazione al tema dello Stato non si registrano mutamenti significativi, per lo meno non sul piano teorico. Per Marx la Storia è caratterizzata dall’avvicendamento di diverse formazioni sociali, ciascuna caratterizzata dalla presenza di una classe dominante. Tra queste, quella capitalista è destinata ad essere soppiantata dal socialismo, contrassegnato dal dominio del proletariato; il socialismo però costituirebbe soltanto una transizione verso una forma di società ben diversa, vale a dire il comunismo, caratterizzato dall’assenza di classi sociali, divisione del lavoro, conflitti e di conseguenza dello Stato. Lo Stato è infatti concepito da Marx e dal marxismo essenzialmente come lo strumento attraverso cui la classe dominante impone e perpetra la sua egemonia all’interno della società. Venute meno la divisione del lavoro e le classi, lo Stato semplicemente si dissolve poiché non è più necessario.

Come detto, questo schema non viene sul piano della teoria messo in discussione dal marxismo di qualsiasi declinazione. Si può dire certamente che il leninismo pragmaticamente sposti in un futuro molto lontano l’avvento del comunismo e l’estinzione dello Stato, mentre le varie declinazioni del marxismo occidentale se lo pongono come un obiettivo immediato e irrinunciabile, pena il tradimento dei princìpi rivoluzionari.

Su tutt’altro versante alcune posizioni francamente sconcertanti assunte dal PCI sin dalla seconda metà degli anni Cinquanta in relazione al Mercato Unico Europeo (al netto dell’opposizione ai Trattati di Roma) sembrano non essere estranee a queste concezioni, nel senso che lo Stato nazionale viene pur sempre identificato come il braccio politico della borghesia. In tal senso una cessione di competenze da parte dello Stato in vista di un’integrazione economica continentale viene considerata come progressiva, sebbene se ne contesti il carattere capitalista.

In relazione alla concezione dello Stato, vi sono a nostro parere due limiti strutturali che accomunano Marx e i vari marxismi: se è vero che indubbiamente potere economico e potere politico procedono spesso in armonia (sebbene non manchino nella Storia numerosi esempi di assetti maggiormente “dialettici”) ci pare impossibile prospettare la fine della divisione del lavoro –e quindi la scomparsa delle classi– dal momento che il progresso scientifico, tecnologico e della conoscenza in generale spingono in altra direzione; eccessivamente rigida sembra poi l’identificazione assoluta dell’organizzazione politica quale mero strumento della classe dominante, privandola di qualsiasi vocazione universalistica (nel senso di poter anche solo ipoteticamente avere finalità che trascendano gli angusti interessi dei dominanti).

Fatte queste premesse, noi riteniamo che lo scenario per cui lottare non sia quello di una società senza divisione del lavoro e senza classi (un Eden tanto astratto quanto utopistico), bensì quello di una società che elimini ogni forma di sfruttamento e limiti drasticamente la forbice economica fra le differenti categorie di lavoratori. A tal fine il ruolo dello Stato è fondamentale ed irrinunciabile, ovviamente assumendo come guida l’interesse delle classi lavoratrici, a cominciare da quelle salariate e a seguire quelle a vario titolo dominate nella società capitalista a trazione neo-liberista.

In conclusione si può affermare che quello dello Stato è forse il nodo in cui è maggiore la distanza tra la prospettiva di Indipendenza e quella della tradizione marxista, a prescindere dalle declinazioni di quest’ultima.

9. CLASSE E LOTTA DI CLASSE

Marx sosteneva che le dinamiche strutturali del modo di produzione capitalista favorivano una polarizzazione sociale radicale tra una classe sociale dominante (la borghesia), detentrice della proprietà dei mezzi di produzione, e una classe sociale dominata (il proletariato), costretto a vendere la propria forza-lavoro per sopravvivere. Questa rigida dicotomia è stata assunta in maniera dogmatica da gran parte del marxismo occidentale e in molti casi anche da quello orientale. Ciò ha contribuito in maniera determinante alla sconfitta storica del socialismo reale e anche del movimento comunista nei Paesi occidentali, dove mai si è verificata una rivoluzione di matrice socialista. Neanche l’universo leninista è sembrato estraneo a tale rigidità, sia pure con diverse sfumature e qualche eccezione. Importantissimi in tal senso i contributi di Gramsci e del Lukács maturo (quello de “L’ontologia dell’essere sociale”) ma, oltre a quelli teorici, non vanno dimenticati i contributi pratici offerti da diverse esperienze socialiste sopravvissute alla tempesta del 1989 (al netto di una serie di contraddizioni) e da movimenti di liberazione nazionale.

È del tutto evidente che le dinamiche e le contraddizioni delle società capitaliste del XXI secolo sono caratterizzate da una marcata frammentazione sociale e di classe, ragion per cui ci appare molto più esaustiva la distinzione tra classi dominanti (rigorosamente al plurale) e classi dominate (ancor più plurali). Di conseguenza la dimensione del conflitto tra classi, lungi dal diventare secondario, si problematizza configurandosi sotto diverse forme: lotte tra dominanti e dominati (o solo tra frazioni degli uni e degli altri), lotte tra frazioni di dominanti, lotte tra frazioni di dominati (spesso favorite dalla subalternità culturale di questi ultimi nei confronti dei dominanti).

Ora, se le condizioni che determinano le disparità sociali e la collocazione sociale di individui e gruppi sono fondamentali per comprendere le dinamiche economiche, sociali e politiche, va sottolineato che non necessariamente a far girare la ruota della Storia è il conflitto tra dominanti e dominati: in un frangente storico come quello attuale, caratterizzato da rapporti di forza assolutamente squilibrati, sono le lotte tra frazioni di dominanti a determinare gli eventi, con componenti a volte anche molto ampie di classi dominate che vengono allo scopo mobilitate per effetto della loro subalternità.

Per altro verso va con ugual forza rifiutata qualsiasi prospettiva inter-classista, per lo meno nella classica accezione del termine; qualsiasi prospettiva cioè che si proponga di trovare una sintesi o un compromesso di fronte al conflitto di interessi materiali tra le classi nella società capitalista. Tale è stata infatti, sia pur con intenti ed esiti distinti, la matrice sia dei fascismi che dei vari compromessi tra capitale e lavoro di stampo keynesiano. Nel primo caso, dietro alla retorica sul corporativismo e sul superiore interesse della nazione vi è stata soltanto la volontà di cristallizzare differenze sociali, gerarchie e rapporti di forza, disinnescando i pericoli che per le classi dominanti potevano scaturire dal conflitto sociale. Nel secondo caso si è trattato di esperimenti spesso mitizzati e storicamente possibili soltanto in cicli caratterizzati da una crescita economica molto spinta, capace quindi di garantire benefici e miglioramenti per tutte le componenti sociali, sia pure in forma non certo egualitaria. Come è facile intuire, tali compromessi sono destinati ad essere messi radicalmente in discussione quando la crescita rallenta quel tanto che basta per far sì che non sia più possibile spartire tra tutti la torta.

Occorre quindi rideclinare il concetto di lotta di classe, assumendo come compito storico quello di lavorare per promuovere la lotta dei dominati contro i dominanti, abbandonando rigide identificazioni, ma tenendo anche presente che nelle circostanze odierne il blocco sociale dei dominati non è automaticamente armonico in quanto a istanze e interessi materiali immediati. Si rende pertanto necessaria un’opera di sintesi e di guida dell’organizzazione politica, la quale però deve tenere presente che essa non può consistere in un semplice compromesso tra diverse istanze da considerare tutte sullo stesso piano. Il piccolo imprenditore che sfrutti i propri dipendenti in modi non dissimili da quelli delle peggiori multinazionali può certo rientrare nel novero dei dominati a vario titolo, ma il suo interesse a spremere il più possibile la manodopera non può essere né accolta né tantomeno oggetto di contrattazione o compromesso. In altre parole, i dominati non sono tutti uguali e la stella polare per un progetto di società alternativa a quella attuale deve essere costituito dalle condizioni dei più umili.

Vi è infine da sottolineare che, in antitesi con la rigidità, lo schematismo e il determinismo di tanto marxismo, la lotta di classe non si presenta quasi mai in forma pura, ma è sempre intrecciata con la questione nazionale: se è vero infatti che lo sfruttamento di classe è un elemento strutturale della società borghese, altrettanto lo è la sua vocazione globale, con la conseguente creazione di centri e periferie, di metropoli e colonie. Le disparità economiche e politiche tra Stati, lo sfruttamento di alcuni ai danni di altri è un elemento necessario per la riproduzione del sistema, al pari dello sfruttamento di classe. Ciò dimostra una volta di più il legame inscindibile tra questione nazionale e questione sociale.

10. SOGGETTO RIVOLUZIONARIO

Non si possono avanzare dubbi di sorta in merito alla centralità che la categoria di soggetto rivoluzionario ha avuto nella riflessione di Marx e successivamente nelle varie declinazioni del marxismo. Secondo il pensatore di Treviri la Storia è contrassegnata dal susseguirsi di diverse formazioni sociali, caratterizzate da differenti modi di produzione e dal dominio di una specifica classe sociale. In base a tale concezione i grandi processi storici che determinano il superamento di una formazione sociale in declino e l’affermazione di un nuovo modo di produzione sono causati dalle contraddizioni dell’assetto precedente e da quelle dinamiche che portano all’emergere di un nuovo soggetto (una classe), capace di soppiantare la vecchia classe dominante e di prenderne il posto, affermando così un nuovo paradigma. In quest’ottica la rivoluzione è prima di tutto un fatto sociale, esito di una ben precisa dinamica di sviluppo della società. Corollario di questa concezione è la convinzione che la rivoluzione (il mutamento di modo di produzione e di formazione sociale) avvenga soltanto quando le forze produttive abbiano raggiunto il massimo sviluppo consentito loro dal modo di produzione precedente, determinando così la necessità del suo superamento.

Tale concezione marxiana è probabilmente figlia di due elementi: sul piano filosofico appare come una rielaborazione ed un ulteriore sviluppo della dialettica hegeliana tra servo e padrone; sul piano storico a influenzarla è il ruolo indubbiamente rivoluzionario giocato dalla borghesia nella fase di transizione dalla società di Antico Regime, caratterizzata dal modo di produzione feudale, alla moderna società borghese, contraddistinta dal modo di produzione capitalistico. Si tratta indubbiamente di apporti fecondi per la comprensione delle dinamiche storico-sociali, ma una loro interpretazione in chiave sistematica e deterministica rischia di dar vita ad una filosofia della storia non priva proprio dei suddetti limiti (determinismo e schematismo). È proprio ciò che avviene in alcune formulazioni del Marx giovane (peraltro in parte superate dalla sua riflessione più matura) le quali però hanno spesso finito con l’essere assunte dal marxismo in maniera a-critica e senza un’adeguata –nonché necessaria– storicizzazione del pensiero marxiano. Ciò non toglie che anche le riflessioni del Marx maturo finiscano con l’essere influenzate in maniera decisiva da questa impostazione di fondo, il che trova una conferma nella canonizzazione del pensiero marxiano ad opera di Engels e Kautsky, frutto certo di semplificazioni e schematismi, ma che abbracciano l’intero corpus della sua produzione. Affermare che la ferrea coerenza del canone sia dovuta a una serie di forzature non significa pertanto che una propensione allo schematismo (in ossequio alla sintesi) fosse estranea al pensiero di Marx.

A tale proposito, è difficile sottovalutare in positivo l’apporto di Lenin rispetto all’approccio e alle tesi della Seconda Internazionale. Non a caso Gramsci definì la Rivoluzione d’Ottobre una «rivoluzione contro il Capitale», a causa di una serie di divergenze tra la riflessione leniniana e quella di Marx: in primo luogo il rivoluzionario russo ritenne che il terreno per la rivoluzione in un Paese arretrato e semi-feudale come la Russia fosse favorevole in quanto anello debole nella spietata lotta inter-imperialistica caratteristica della fase storica in cui si trovava ad agire; in secondo luogo, a tal fine, ruolo centrale era quello spettante all’organizzazione politica che si ponesse alla testa di un blocco sociale composto da operai, contadini e soldati. La centralità dell’organizzazione politica conferisce di fatto ad essa il ruolo di autentico soggetto rivoluzionario, facendo così della rivoluzione un fatto politico prima che sociale. Ciò non vuol dire peraltro che la composizione di classe del blocco sociale, di cui l’organizzazione politica costituisce l’avanguardia, sia irrilevante: come detto, nel contesto della Russia zarista Lenin si rivolgeva a operai (una sparuta minoranza concentrata essenzialmente a Mosca e Pietrogrado), contadini poveri e soldati, i quali rappresentavano la stragrande maggioranza della popolazione russa, fatto questo che finiva col conferire un carattere nazionale (nel senso di opposto a particolare) al progetto rivoluzionario. Tale approccio lo possiamo ritrovare, adattato ovviamente alle situazioni sociali determinate in tutti quei Paesi che hanno sperimentato altre rivoluzioni (Cina, Vietnam, Cuba…) o nel successo di movimenti di impronta fortemente progressista (vedi le esperienze bolivariane) o nei contesti in cui hanno operato movimenti di liberazione nazionale anche nel cuore dell’Europa occidentale (Paesi Baschi, Irlanda del Nord, Corsica). Si può in sintesi affermare che la lezione di Lenin è stata feconda laddove se ne è fatto tesoro in relazione ai princìpi e la si è declinata in maniera non rigida tenendo presente le peculiarità concrete dei singoli contesti nazionali. Al contrario, quando le tesi di Lenin sono state erette a dogma, i limiti di tale approccio sono emersi in maniera evidente, sia in Occidente sia in quei Paesi in cui il socialismo è stato calato dall’alto senza tenere in considerazione le relative specificità storiche e culturali. Si pensi alla rigidità che ha contrassegnato il marxismo-leninismo sul piano teorico e la Terza Internazionale sul piano della pratica politica.

Va inoltre tenuto presente che in merito a quest’ultimo punto la stessa riflessione di Lenin, pur geniale sotto molti aspetti, presenta alcuni limiti dovuti proprio all’accettazione (quanto meno sul piano teorico) di una concezione della Storia –quella marxiana– che risente come detto di uno strutturale determinismo.

L’approccio di Indipendenza si propone di accogliere il meglio della lezione di Lenin (a sua volta debitrice nei confronti di Marx), ma depurandola da ogni forma di determinismo. Riteniamo che nessun gruppo sociale possa, sulla base di caratteristiche proprie, rivestire il ruolo di soggetto rivoluzionario, sia esso una classe sociale, una frazione di essa o un blocco sociale più composito. Tale funzione può essere svolta soltanto dall’organizzazione politica, a patto che sappia porsi a capo di un blocco sociale sufficientemente ampio da assumere una valenza nazionale. Ciò non vuol dire che la lotta di classe dei dominati contro i dominanti non abbia un ruolo fondamentale, ma occorre sottolineare con forza che le società a capitalismo maturo sono caratterizzate non da una progressiva polarizzazione sociale intorno alla dicotomia borghesia-proletariato (come nelle previsioni di Marx), bensì da una frammentazione sociale sempre più spinta, la quale può essere ricomposta soltanto sulla base della dicotomia dominanti-dominati. Abbiamo detto può essere ricomposta perché si tratta di un processo niente affatto scontato e perché gli interessi immediati delle classi dominate o di frazioni di esse non sono né naturalmente coincidenti né tantomeno funzionali a un progetto rivoluzionario. In tal senso il lavoro del soggetto politico è non solo fondamentale quanto estremamente complicato, poiché è chiamato a scongiurare il rischio di due trappole opposte e speculari: quella di schiacciarsi intorno agli interessi di un settore troppo ristretto in nome della purezza di classe e quella di essere subalterno agli interessi capitalistici che nella dinamica della competizione tra dominanti appaiono destinati a soccombere, in nome di un coinvolgimento di tutti i dominati senza un’adeguata riflessione circa la natura delle rivendicazioni concrete.

11. LA QUESTIONE AMBIENTALE

Sia Marx che numerosi suoi epigoni esponenti di spicco del marxismo non hanno riservato particolare attenzione alla questione ambientale, in parte anche comprensibilmente. La sensibilità intorno a tali tematiche è infatti relativamente recente e affonda le sue origini nella graduale presa di coscienza circa gli effetti negativi delle attività umane (in primis quelle industriali) non soltanto sulla salute degli individui, ma sull’equilibrio dell’intera biosfera; una presa di coscienza che prende avvio non prima degli anni Settanta del XX secolo. Detto in altri termini, non si può certo rimproverare a Marx e ai marxisti del primo Novecento la loro scarsa sensibilità ecologica, dal momento che all’epoca il tema era pressoché ignorato.

Va tuttavia rilevato che anche negli ultimi decenni il marxismo non sempre si è dimostrato particolarmente ricettivo nei confronti dei problemi causati dallo sviluppo economico capitalistico. Occorre quindi comprendere le ragioni profonde che non hanno consentito una sintesi di istanze (quella legata alla giustizia sociale e quella legata alla tutela della biosfera) che di per se stesse non sono in contraddizione.

Al contrario, da più parti si è –a nostro giudizio con ragione– insistito sull’incompatibilità strutturale tra il modello capitalista (caratterizzato dalla ricerca del profitto come unico fine nonché dallo sfruttamento intensivo non solo del lavoro ma anche delle risorse naturali) e qualsiasi forma di tutela ambientale. A tale proposito rimandiamo alle nostre tesi sull’ambiente, in particolare per quanto concerne le mistificazioni del cosiddetto «capitalismo green», il quale costituisce oggi la cornice di riferimento di gran parte delle teorie riguardanti lo sviluppo sostenibile.

Il marxismo novecentesco è stato contraddistinto da una concezione (mutuata certamente da Marx e altri “padri fondatori”) secondo la quale sarebbe stato proprio lo sviluppo delle forze produttive a determinare le condizioni necessarie per il superamento del capitalismo e l’affermazione del socialismo prima e del comunismo poi. Se questo schematismo è stato integralmente fatto proprio soprattutto dal marxismo occidentale, le esperienze socialiste concretamente realizzate hanno dovuto fare i conti con un altro problema di straordinaria impellenza: riguardando infatti per lo più Paesi arretrati, la priorità è stata data all’obiettivo di colmare il divario con il mondo sviluppato, con la conseguente centralità attribuita allo sviluppo industriale. Si è trattato, entro certi limiti, di scelte obbligate e difficilmente condannabili. Non si può tuttavia fare a meno di porre l’attenzione sulle implicazioni delle tesi di Chruščëv secondo cui il mondo socialista si sarebbe dovuto porre l’obiettivo di vincere la competizione economica con l’Occidente capitalista. In primo luogo misurarsi sul terreno della capacità di produrre ricchezza materiale con un sistema che si fonda sul profitto appare una battaglia persa in partenza (sarebbero altri i terreni di confronto, dalla distribuzione equa della ricchezza stessa ad una sua ridefinizione in termini qualitativi anziché quantitativi); in secondo luogo occorre tenere presente le conseguenze imitative che tale impostazione implica, in particolare in riferimento agli effetti disastrosi sull’ambiente, che non a caso nel corso della seconda metà del Novecento hanno caratterizzato anche diversi Paesi socialisti; infine perché tale approccio finisce di fatto col riproporre lo schema in base al quale il socialismo non sarebbe altro che il risultato ultimo dello sviluppo capitalistico portato alle sue estreme conseguenze.

In conclusione occorre a nostro giudizio superare definitivamente simili prospettive, affermando da un lato l’incompatibilità strutturale tra capitalismo e tutela della biosfera, dall’altro la possibilità del connubio tra socialismo ed ecologia, sulla base del fatto che il primo presuppone un ruolo direttivo della politica sui processi economici. In altre parole nel socialismo l’attività economica è un mezzo al servizio delle finalità che una società decide di darsi mediante la politica, il che è pertanto perfettamente compatibile con la tutela dell’ambiente.

Anche in relazione alla questione ecologica si ripropone quindi il tema della centralità della politica e del ruolo irrinunciabile dello Stato e della sovranità.

Indipendenza

(Xª Assemblea, Roma, 9 ottobre 2021)

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