Tesi di “Indipendenza” su princìpi generali e orientamenti per una politica estera autonoma dell’Italia
Princìpi generali
1. Rifiuto di quel paradigma delle relazioni internazionali (formulato in maniera compiuta per la prima volta dall’amministrazione Bush senior) che, anziché gli Stati, considera gli individui o aggregazioni terze (ad es. organismi non governativi) i soggetti del diritto internazionale e affermato, non a caso, dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) e dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, entrambe cinghie di trasmissione dell’attuale assetto di rapporti di forza internazionali. L’individuo astratto non esiste, ma è sempre parte di un contesto sociale, politico e culturale storicamente determinato.
2. Se i soggetti del diritto internazionale sono gli Stati, principio fondamentale e irrinunciabile deve essere quello del rispetto della loro sovranità e della loro intangibilità territoriale. Se è vero che l’applicazione di questo principio può finire con il legittimare regimi autoritari, è altrettanto vero che i rischi derivanti da un interventismo sistematico contro tutti quei Paesi non conformi ad un modello (occidentale) considerato accettabile sono indiscutibilmente più devastanti.
3. Riconoscere che popoli e Stati hanno storie diverse significa accettare la non esportabilità e pedissequa replicabilità di un determinato modello politico (la democrazia liberale occidentale, peraltro identificata con la democrazia sic et simpliciter). Ciò non vuol dire sposare modelli autoritari ma comprendere e contestualizzare. Senza contare che molte democrazie occidentali sono assai poco democratiche nella sostanza (potere delle lobby; sistemi elettorali maggioritari che escludono dalla rappresentanza parlamentare partiti più piccoli; privatizzazione dei finanziamenti della politica, a tutto vantaggio di quelle forze che rappresentano gli interessi delle classi dominanti…).
4. Rifiuto del federalismo sovranazionale come prospettiva politica: qualsiasi processo di quel tipo accentra il potere creando organismi elefantiaci in cui una carica o un organo decidono per un numero enorme di persone in merito a questioni cruciali. In ogni Stato federale, infatti, gli ambiti decisivi e fondamentali della sovranità appartengono sempre al governo centrale, mai alle singole parti. Per altro verso, le stesse esperienze confederali, nella Storia, si sono tutte dimostrate fallimentari, avendo sempre come esito o una centralizzazione di tipo federale o una dissoluzione della confederazione stessa.
5. La nostra prospettiva internazionalista è quella della cooperazione tra Stati sovrani, l’unica in grado di garantire il rispetto dell’autonomia, degli interessi, della Storia, della cultura dei singoli popoli. Internazionalismo non vuol dire anti-nazionalismo, come spesso alcuni vogliono dare a intendere, ma, al contrario, l’attuazione di un autentico nazionalismo nel contesto internazionale più allargato. Con nazionalismo si intende tanto l’affermazione dell’indipendenza nazionale e della libertà della nazione da qualsiasi forma esterna di coercizione o di ingerenza, quanto l’assoluta parità ed equità di questa rispetto a tutte le altre nazioni e di conseguenza la totale estraneità e l’opposizione rispetto ad imperialismo, colonialismo, chauvinismo, spesso erroneamente definito “nazionalismo”. Si intende altresì il sostegno alla causa delle nazioni oppresse contro tali velleità. Ne consegue che, nella sua massima e più compiuta espressione, il nazionalismo coincide con l’internazionalismo; con l’unica differenza che mentre il primo riguarda il momento emancipativo della nazione stessa rispetto a un’oppressione esterna, il secondo si realizza laddove si rivendica la necessaria estensione di tale istanza emancipativa rispetto a entità nazionali altre. L’internazionalismo è la massima evoluzione, il punto culminante del nazionalismo.
6. La pluralità culturale e linguistica dell’umanità non è un fastidioso retaggio da superare bensì una ricchezza da preservare. Nel corso della Storia sfide diverse hanno portato alla ribalta o hanno determinato la decadenza di civiltà diverse. Lo scambio culturale e la possibilità di attingere da chi, in un dato frangente, si dimostrava più capace di far fronte ai problemi del momento si è dimostrato un fattore di evoluzione formidabile. Un’unica cultura globale non avrebbe nient’altro riferimento che se stessa e sarebbe quindi incapace di affrontare una sua crisi.
7. Di conseguenza siamo sempre molto scettici nei confronti di quelle tesi che, pur riconoscendo alla nazione un ruolo progressivo, considerano il suo superamento come una necessità e allo stesso tempo come qualcosa di desiderabile.
8. Ancor più risibili sono quelle tesi che distorcono la Storia dipingendola come una linea continua in cui si parte dalla dimensione del villaggio sino ad arrivare al governo globale, attribuendo inoltre a questa presunta tendenza un valore positivo a prescindere. Tesi smentite dalla presenza di Imperi enormi nell’antichità e dal loro superamento in favore di organismi più piccoli; dal passaggio che dal Medioevo porta alla modernità caratterizzato dal superamento delle prospettive universalistiche in nome degli Stati nazionali; dal fatto che dal 1945 ad oggi il numero degli Stati è in costante aumento, anche dopo la fine della cosiddetta decolonizzazione, pur dovendosi doverosamente distinguere fra secessioni indotte da interessi geopolitici ed economici esteri (Balcani, Africa…) e genuine aspirazioni all’autodeterminazione nazionale.
9. La conflittualità e le guerre tra Stati non sono dovute alla loro mera esistenza ma ad interessi economici delle loro classi dominanti. In particolare, il modello capitalistico si basa fisiologicamente sull’asimmetria nei rapporti internazionali (centro/periferia, metropoli/colonie, primo mondo/terzo mondo, ecc.) e sulla competizione inter-imperialistica. È questo che causa le guerre, le quali sarebbero ancor più devastanti se condotte da super-Stati continentali.
La limitazione dei conflitti non si consegue pertanto con il progressivo accorpamento degli Stati e la creazione di grandi blocchi omogenei (i quali costituiscono semmai un fattore che in prospettiva risulta funzionale allo scontro inter-imperialistico), ma con il superamento del capitalismo in senso socialista. È vero invece che in questa fase, caratterizzata dalla crisi dell’unipolarismo e dall’emergere di nuove potenze globali, la presenza di una pluralità di Stati nazionali dediti all’esercizio effettivo della loro sovranità e al perseguimento dei propri interessi nazionali potrebbe al contrario rappresentare un fattore di stabilità (se non scongiurando quantomeno limitando la portata dei conflitti), dal momento che sarebbe strutturalmente incompatibile con la formazione proprio di quelle macro-aggregazioni omogenee destinate presto o tardi ad arrivare allo scontro.
Ad ulteriore dimostrazione di quanto sia insensata la tesi secondo la quale eliminando il pluralismo statuale si eliminerebbe la causa dei conflitti va infine sottolineato che storicamente i conflitti più sanguinosi e laceranti sono spesso stati rappresentati dalle guerre civili combattute all’interno dei singoli (macro)Stati.
Orientamenti per una politica estera autonoma dell’Italia
10. In virtù della sua collocazione strategica al centro del Mediterraneo, l’Italia è chiamata naturalmente, dalla geografia, ad aver cura innanzitutto sugli accadimenti in quest’area ed a svolgere un ruolo significativo. È suo interesse la stabilità e in caso, se non la prevenzione, certo la risoluzione positiva dei conflitti ed il perseguimento di buoni rapporti di vicinanza e di interscambio.
11. Dal secondo dopoguerra, la sudditanza dell’Italia all’atlantismo e quindi all’euro-unionismo ha comportato lo scarso rilievo attribuito alla politica estera, una sua valenza periferica nel dibattito politico/culturale e generalmente un atteggiamento di acquiescente adempimento ad aspettative e direttive dei centri di potere dominanti d’oltre Atlantico prima e poi anche d’oltrAlpe. Eccezion fatta per due passaggi storici di “neo-atlantismo” (il primo tra il 1957 e il 1962, il secondo tra il 1974 ed il 1978) di timida contrattazione –alla fine velleitaria– con Washington per una maggiore considerazione del suo ruolo e dei suoi interessi nazionali (prevalentemente forniture energetiche e interscambi commerciali anche con Paesi non graditi agli USA), il livello della politica estera italiana è condensabile tutto nei profili generalmente mediocri di chi ha ricoperto il dicastero, nel suo utilizzo per lotte di frazione interne ai partiti e tra i partiti non di rado intrecciati con ambizioni d’affermazione personali, nella frequente approssimativa conoscenza dei “dossier” da analizzare, come è emerso in diversi passaggi chiave della Storia del Paese.
12. Dopo la fine del sistema di dominio bipolare USA/URSS per l’implosione di quest’ultima nel 1991, il navigare ‘a vista’ della politica estera italiana si è rovesciato nell’assunzione di decisioni anti-nazionali e disgregatrici del tessuto sociale italiano (dall’adesione al combinato Unione Europea / euro, alla maggiore dipendenza nella NATO, al coinvolgimento dagli anni Novanta in una serie di guerre d’aggressione: Balcani, Iraq, Libia…) con rischi di tenuta dell’unità nazionale in conseguenza delle spinte centrifughe regionaliste (in modo evidente dal 2001) indotte dalla stessa Unione Europea. A ciò si è aggiunto un deciso scadimento delle figure preposte a tale ruolo, spesso prive di qualsivoglia visione prospettica.
13. Preliminarmente alla configurazione di una politica estera autonoma dell’Italia sono necessari: a) una classe dirigente nazionale degna di questo nome, che l’Italia a ben vedere non ha mai conosciuto; b) chiarezza nell’interazione tanto di valori e princìpi, in direzione degli orientamenti di cui alla prima sezione di queste tesi, quanto di definiti contorni degli interessi nazionali (di per sé non invarianti, pur con fattori geopolitici permanenti) da riorientare rispetto a quelli attuali sedicenti tali; c) risorse e strutture indispensabili ad alimentare relative politiche e strategia; d) duttilità nel rendere progressivamente realizzabili gli obiettivi con comprensione dei mezzi di cui dotarsi e delle occasioni che si venissero a determinare sia nello scenario internazionale sia per mutamenti interni alle due polarità che dominano il nostro Paese (quella carolingia, cioè franco-tedesca, tramite la UE da un lato e quella atlantica, cioè Stati Uniti, dall’altro).
14. Rivalutare ruolo, autorevolezza e centralità regolatrice dello Stato nazionale, recupero dell’esercizio pieno delle sue funzioni, comprese quelle economico-finanziarie, al fine di dar vita a relazioni economiche e sociali radicalmente altre rispetto a quelle vigenti.
15. Recedere unilateralmente dagli atti di diritto internazionale non conformi con l’art. 11 della Costituzione (in prospettiva, ridiscussione del secondo comma dello stesso articolo). Prediligere i rapporti bilaterali con gli Stati rispetto all’odierno prevalere del multilateralismo, architrave del sistema attuale di dominio euro-atlantico. In caso di relazioni multilaterali, devono essere chiare e garantite le modalità di un eventuale recesso. Sganciamento da quelle istituzioni internazionali lesive della sovranità e degli interessi nazionali quali Fondo Monetario Internazionale, NATO, Unione Europea, eccetera.
16. Necessità di (ri)costruire un’autonoma disponibilità di risorse finanziarie e di indirizzo nelle linee di politica economica con attenzione preliminare al potenziamento del proprio apparato produttivo, al mercato interno e alla riqualificazione dei servizi e delle aree rese depresse (Meridione in primis). Quindi riacquisizione pubblica delle attività ed industrie strategiche (con primaria attenzione alla ricerca scientifica, alla riconversione ed indipendenza energetica, al rilancio dell’agricoltura depurata dalla chimica, ad un turismo di qualità ed intelligentemente distribuito nel tempo e nello spazio, allo sviluppo ambientalmente attento delle infrastrutture vitali). Ripristino ed allargamento di diritti sociali senza sostanziali differenze tra chiunque risieda nel Paese.
17. Rivedere se non l’esistenza, certamente il ruolo delle regioni le cui politiche siano collegate a quelle nazionali, ed il loro rapporto con lo Stato centrale, avendo di vista la coesione nazionale.
18. Introduzione del servizio popolare civico-militare, da concepire in modo differente dal vecchio esercito di leva per organizzazione dei tempi di servizio, modalità d’impiego e finalità. Indispensabile in tal senso rompere con le pratiche più odiose tipiche del mondo militare (nonnismo, obbedienza cieca ed ottusa elevata a valore, ecc.) e sancire costituzionalmente il ruolo esclusivamente difensivo dell’esercito nonché l’impossibilità di schierare militari italiani fuori dai confini nazionali.
19. Senza preliminare ripristino delle funzioni e dei compiti strategici dello Stato, senza una ridefinizione del suo significato di senso in un quadro valoriale collettivo di riferimento, senza liberazione da vincoli e forme di sudditanza, sarà impossibile far valere le proprie istanze e le proprie esigenze.
20. Rivendicare la piena e completa indipendenza nazionale e conseguire quindi un’effettiva sovranità è una questione che non si esaurisce negli aspetti formali delle istituzioni politiche, ma che deve incidere sui piani sostanziali, anche quelli che davvero hanno valore di identificazione per quanto attiene la natura dei rapporti internazionali. Appare comunque evidente che porre nella giusta rilevanza la questione nazionale non significa sottovalutare altri aspetti della dinamica politica, né tantomeno affermare diritti di predominio in qualsivoglia modo ‘giustificati’. Nemmeno si tratta di mettersi in concorrenza con l’imperialismo o di dar vita a forme di sub-imperialismo, né tantomeno di cercare in un confronto inter-nazionale il compattamento sociale necessario a mantenere la divisione di classe all’interno. Questi sono sicuramente dei rischi connessi al perseguimento di un progetto politico di rivendicazione nazionale ed è per questo che non è affatto secondaria la natura socio/politica di chi dirige la lotta e relativa idea di società.
21. La dimensione nazionale è da intendere come un ‘confine culturale’, come il ‘limite’ di un’identificazione collettiva, non come una barriera. È la dimensione concreta (storicamente e culturalmente determinata) in cui è possibile attuare principi universali quali libertà, giustizia, uguaglianza. È l’ambito dell’universalismo concreto da opporre all’universalismo astratto tipico della cultura liberale e capitalista. Realizzare la liberazione della nazione costituisce un passo verso la liberazione di tutti coloro che la compongono, ma non, di per sé, la realizzazione piena di questo obiettivo. Occorre quindi, di sicuro, che ad essa faccia seguito la liberazione degli oppressi della nazione –e, se ve ne sono, dalla nazione. Riconquistare indipendenza nazionale significa muoversi nell’unico modo –e nell’unico senso– possibile per giungere fattivamente alla concretizzazione storica di una ‘possibilità di socialismo’. La liberazione nazionale è la conditio sine qua non, il presupposto logico e politico della rivoluzione. Le due cose possono darsi contemporaneamente laddove le condizioni storico/politiche lo consentono, ma non può esserci emancipazione sociale senza libertà nazionale.
22. Per questo motivo non sarà mai possibile costruire un sistema di rapporti inter-nazionali giusto ed equo senza che, prima, le singole nazioni e Stati abbiano raggiunto la propria, reale, indipendenza.
Indipendenza
14 settembre 2019
Politica estera. Tesi di Indipendenza (in pdf)