Referendum Atac: dopo la decisione del TAR Lazio, quali prospettive per la lotta

Il Tar del Lazio ha deciso di considerare valido il referendum proposto dai Radicali per la privatizzazione del servizio di trasporto pubblico a Roma, svoltosi l’11 novembre 2018. Alla consultazione vinsero i sì (74-75%, quasi 300mila voti su 2.363.989 iscritti al voto), ma partecipò solo il 16,3% (386.900 degli aventi diritto). Una quota minima che è risibile considerare rappresentativa, tanto quanto parlare di vittoria della democrazia, come hanno fatto i Radicali Magi e Giachetti.
La seconda sezione del Tar del Lazio, con la sentenza n.13285, ha accolto il ricorso proposto dal Comitato promotore del referendum sulla messa a gara del servizio di trasporto pubblico di Roma Capitale (attualmente svolto da ATAC): è così contestata l’applicazione del quorum minimo alla consultazione, poiché previsto da una norma statutaria abrogata. Il Tar ha affermato che l’esito referendario non è soggetto a sbarramenti, con la conseguenza che l’amministrazione avrebbe dovuto procedere alla promulgazione del risultato che ha visto prevalere i “sì”.

Il referendum non raggiunse il quorum del 33,3% necessario, secondo il Campidoglio, per la sua validità. Si andò al voto con l’idea, avallata dalla dichiarazione del Comune, che ci fosse quel quorum. Chi era favorevole alla privatizzazione si recò ‘in (molto relativa) massa’. Chi si opponeva si divise tra chi invitava al NO e chi all’astensione. Ricordiamo che il fronte del NO (Indipendenza, con un suo comitato ad hoc, era parte di un cartello di organismi che operò congiuntamente ed intensamente nei territori) criticava l’essere ATAC una Società per Azioni, ovvero un’impresa in cui la proprietà interamente pubblica non ne modifica lo scopo di lucro (con effetti disastrosi sotto gli occhi di tutti). Prevalgono ovviamente, sugli obiettivi sociali, le valutazioni economico aziendali tant’è che i problemi ATAC S.p.A. li ha sempre affrontati al modo delle aziende private: tagli di linee e fermate, precarizzazione del lavoro, ‘dumping’ sociale, appalto di proprie funzioni a ditte esterne all’azienda.
La situazione di ATAC S.p.A. è figlia delle politiche degli ultimi 25 anni volte a liberalizzare. Il paradosso è che chi perorava il SI attaccando ATAC, attaccava un modello societario ispirato proprio alla liberalizzazione, indifendibile per la gestione che la caratterizza da almeno un paio di decenni circa, con la produzione di un abnorme debito, un pesantissimo invecchiamento delle vetture e delle infrastrutture, una formidabile obsolescenza tecnologica, una incapacità grave nell’organizzazione del personale. Una “mala gestione” costellata da fenomeni di corruzione, prodotta da una elefantiaca dirigenza frutto del prevalere di interessi delle oligarchie ‘politico-affaristiche’ sugli interessi generali. È lampante la corresponsabilità di lunga data delle amministrazioni comunali, unico azionista di ATAC, e di ATAC medesima nella pessima conduzione dell’azienda, in un generale abbandono che –non è la prima volta– sembra fatto apposta per aprire le porte ai privati.

Dicemmo NO al peggioramento del servizio che la vittoria del SI avrebbe comportato, anche come volàno politico-mediatico altrove in Italia, Milano in primis.
Dicemmo e diciamo SI alla trasformazione di ATAC S.p.A. in Azienda Speciale, ovvero, secondo la legge, un ente strumentale del Comune senza scopo di lucro. Quindi società di diritto pubblico, braccio del comune, veramente pubblica, non una SpA. E aggiungevamo/aggiungiamo, su questa base, altro: 1. miglioramento dell’infrastruttura (che dire insufficiente è dir poco) sbilanciata sulla gomma, dando così uno ‘strumento’ ottimale per il gestore; 2. individuazione di una dirigenza controllata dal pubblico ma sottratta al clientelismo con meccanismi di controllo e partecipazione da parte degli utenti e dei lavoratori mediante strumenti specifici per il loro accreditamento e intervento nei meccanismi di gestione dell’ente, coerentemente con l’art. 43 della Costituzione; 3. riassunzione del servizio all’interno delle strutture amministrative del Comune e rientro nell’azienda effettivamente pubblica dei servizi esternalizzati (la manutenzione, ad es.), cioè dati in affidamento ai privati; 4. polo pubblico per la produzione di autobus, tram e bus elettrici, nell’ottica di promuovere nuove filiere economico-occupazionali e riconversione produttiva.
Tutto questo rimandava e rimanda ovviamente a qualcosa di più generale e ‘strategico’. Senza mettere in discussione le regole dell’Unione Europea su intervento pubblico, mercato e messa a gara (sia dei servizi che degli appalti) non si può pensare a nessun rilancio e a nessuna riconversione. La battaglia quindi riguarda anche il più vasto tema del se/cosa/come produrre e verso quali obiettivi sociali.

È evidente la necessità che si riconvochino rapidamente i Comitati per il NO al referendum e che questa battaglia si saldi con quella “Contro ogni autonomia differenziata” che tra le sue materie prevede anche quella dei trasporti. Indipendenza si preoccuperà di fare la sua parte militante e di favorire questa convergenza d’azione.

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«Il voto ha visto una partecipazione molto modesta (16,3% degli aventi diritto complessivamente), con percentuali particolarmente basse in quartieri e borgate periferiche, e un quarto degli elettori si è espresso per il NO, cioè per una opposizione attiva ai quesiti. L’elemento di soddisfazione sta quindi nello scarso sèguito popolare dell’operazione ultraliberista posta in essere da Radicali/+Europa. […] Non ci sono dubbi che i promotori continueranno la battaglia in sede giudiziaria per far valere la validità del referendum in ragione del cambio di Statuto di Roma Capitale che ha rimosso il quorum del 33%; quindi la faccenda nel merito è tutt’altro che chiusa». Così scrivevamo su Indipendenza (n. 45) dando conto della campagna referendaria. Era una facile previsione quella per cui il TAR avrebbe dato ragione ai promotori del referendum: è una decisione tecnicamente corretta, ciò che è mancato è stata la consapevolezza dell’inconsistenza dell’opzione astensionista, tanto sul piano tattico (la validità del referendum) che su quello strategico (la rinuncia a usare quel diritto di tribuna per articolare e proporre qualcosa di diverso e nuovo rispetto alla monocultura liberista), ciò senza dimenticare i rischi insiti nel secondo quesito. Intendiamo quindi rilanciare la nostra disponibilità per una rinnovata iniziativa politica che porti all’elaborazione di un atto di indirizzo del Comune di Roma Capitale per la trasformazione di Atac in azienda speciale di diritto pubblico a gestione partecipata secondo un modello di legalità costituzionale che veda il coinvolgimento fattivo nella gestione dei lavoratori e delle comunità di utenti come prevede l’art. 43 della Costituzione. Declinare la sfida ai diktat liberisti di matrice europea attraverso una vertenza locale è, per noi, un fatto essenziale per quell’accumulo di energie e per la costruzione di quelle convergenze imprescindibili per modificare lo stato dei rapporti di forza oggi sussistenti. Sovranità, democrazia, liberazione!

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