Il crollo, senza precedenti, della partecipazione popolare alle regionali di Lazio e Lombardia (rispettivamente poco più del 37% e del 41%) rende molto approssimative le argomentazioni che stanno andando per la maggiore sulla valenza politica del voto e sul ‘peso’ di questa o quella forza, visto che le percentuali delle varie coalizioni e partiti sono da ripartire all’interno delle percentuali di cui sopra.
Così, ad es., quando si afferma che più di un italiano su due ha votato le destre, sarebbe necessario aggiungere “all’interno di quel minoritario numero dei votanti”, il che ridimensiona le destre e ancor più il resto delle forze politiche via via declinanti nel consenso.
Questo forte astensionismo (al di là del suo significato politico e anche dei limiti che di per sé incorpora) non solo esprime una fortissima lontananza dalla dimensione politica della regione, ma è di una coincidenza assolutamente curiosa, visto che il governo Meloni, con il ddl Calderoli, si appresta a completare l’iter procedurale sulle intese relative al varo del regionalismo / autonomia differenziata. Questa scellerata riforma (da tempo sollecitata dalle istituzioni europee per la sua valenza anti-nazionale di prospettiva, intanto a danno dell’Italia) ha radici molto lontane nel tempo, un lavorìo federalista euro-atlantico coltivato sin dal secondo dopoguerra, cui il centrosinistra diede nel 2001 una sterzata decisiva con la Riforma del Titolo V.
Di cosa si tratti, un ‘assaggio’ drammatico lo si è visto, e sempre più pesantemente si continuerà a vedere, nel comparto sanitario dove l’ “autonomia differenziata” (in termini di costi e di disuguaglianze dei diritti di cura) già da tempo sta esprimendo il peggio possibile. Il tutto coadiuvato –va detto a completamento di verità storica e politica– dalle direttrici di sfaldamento del servizio pubblico sanitario avviate con le riforme neo-liberali e privatistiche ‘made in UE’, ora sublimate nella “Missione salute” del PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza). Più in generale l’ “autonomia differenziata” (in tutte le possibili 23 materie previste dalla riforma costituzionale del 2001) significa disgregazione dell’unità nazionale, sfaldamento della Repubblica, differenziazione al ribasso dei diritti, quindi disuguaglianze sempre più accentuate tra regioni e all’interno delle regioni stesse.
Curioso che sia il governo Meloni (misteriosamente –e non solo per questo– definito “patriottico”, “nazionalista”) a certificare questo orrore politico, giuridico e sociale nella Storia di questo Paese, pregiudicandone gravemente il futuro più di quanto non sia già in essere, con una prospettiva di regressione all’Italia “espressione geografica” di ottocentesca (metternichiana) memoria.
Necessario, anche per questo, mobilitarsi a tutti i livelli.
Se di patriottismo e di nazionalismo si volesse parlare circa il governo Meloni –e riguardo la stessa tenutaria di Palazzo Chigi–, si dovrebbe aggiungere la parola composta “euro-atlantico” (e forse con sostantivi più appropriati quali “suprematismo” o “imperialismo”). Invece (misteriosamente, appunto!) il richiamo è all’Italia.
Sarebbe il caso di scandire un’affermazione (questa: “Ma quali patrioti, macché nazionalisti / governo Meloni, governo di atlantisti!”) nei cortei, ma anche masticarla, farla circolare, articolarla come concetto e come irrobustimento di un asse politico di lotta, innanzitutto con riferimento a due macro-questioni: la guerra USA-NATO in Ucraina contro la Russia e, appunto, l’anti-nazionale e anti-sociale “autonomia differenziata”.
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