Malessere e speranza di cambiamento appaiono i vincitori di questa tornata elettorale:
– Il malessere si è espresso nell’astensione, sopra il 36%, come mai nella storia della Repubblica. Vi sono confluiti non solo disinteresse civico e rassegnazione, ma anche una comprensibile esasperazione e la percezione di non essere rappresentati. Si tratta di una scelta che però, di per sé, è impotente, non incidendo né ‘spostando’ alcunché.
– La (disperata) speranza di cambiamento interessa da tempo una parte consistente (alcuni milioni…) di popolazione italiana: stavolta si è riversata su FdI della Meloni (unica forza politica fuori dal governo Draghi, alla quale è bastato fare una parvenza di opposizione…) ma fluttua di qua e di là da almeno un decennio: a suo tempo ha confidato nel PD di Renzi, poi nel M5S di Grillo, quindi nella Lega di Salvini. Priva di connotazione ‘ideologica’, cerca pragmaticamente protezione e sicurezza a fronte delle paure e degli sconquassi sociali che la ‘globalizzazione’ produce, riversandosi speranzosa sul ‘soggetto politico’ che di volta in volta, rispetto al circuito dominante, gli appare ‘dissonante’ e con qualche ‘possibilità di incidere’. Con la stessa rapidità con cui arriva, altrettanto rapidamente se ne allontana quando non trova soddisfacenti risposte.
I proponimenti (‘emozionali’) di stampo ‘patriottico’ e sociale che la Meloni e FdI proclamano contestualmente (e contraddittoriamente) con gli attestati di fedeltà all’europeismo e all’atlantismo, quindi al loro relativo sistema di vincoli (economici e sociali) e di subalternità (nazionale), sono destinati ad essere fondamentalmente disattesi. Qualora l’europeismo confederale con ‘tonalità’ italica della Meloni dovesse scontrarsi con quello (ad es.) germanico o federalista (cioè atlantico), i numeri che si sono delineati in parlamento consentirebbero alla componente di centro (Forza Italia in primis) e a componenti della Lega di sfilarsi e consentire un ribaltone di governo unitamente a forze centriste e di centrosinistra, con prevedibile avallo presidenziale (Mattarella), senza passare dalle urne. Preliminarmente, come ha dichiarato la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, all’università di Princeton (USA) rispondendo giorni fa ad una domanda sulle imminenti elezioni italiane, «se le cose andranno in una direzione difficile –ho già parlato di Ungheria e Polonia– abbiamo gli strumenti». Un avvertimento al nuovo governo italiano se si discostasse da un’obbedienza “cieca, pronta e assoluta” alle direttive UE.
Con più diplomazia, in un twitter, il massimo responsabile della diplomazia statunitense, Antony Blinken, ha detto che gli Stati uniti sono «ansiosi di lavorare con il governo italiano sui nostri obiettivi condivisi», in primis indicando una continuità di indirizzo del governo italiano sull’Ucraina. Parole mielose quelle di Blinken all’Italia, che è l’unico Paese dell’Unione Europea per il quale la Casa Bianca, dopo il cambio di amministrazione, non ha ancora nominato un suo ambasciatore a Roma, inviando in successione due incaricati d’affari. Forse è stato ritenuto superfluo avendo Draghi al governo, alla luce dei suoi meriti per gli Stati Uniti che gli sono valsi dei riconoscimenti formali, delle onorificenze, oltre Atlantico.
Dalle urne, in Italia, a parte chi, con furbizia politica, pur partecipe al governo, ha evitato il tracollo scollandosene a pochi mesi dal voto, escono pesantemente sconfitte la linea europeista-atlantista di Draghi e con essa quelle forze politiche che hanno sostenuto più o meno zelantemente il «metodo Draghi», fatto di decisionismo da “cabina di regia”, con marginalizzazione degli stessi partiti di governo e del parlamento, per attuare l’«agenda» scritta a Bruxelles, Francoforte e Washington.
Lo stesso Draghi, in qualità di presidente della Banca Centrale Europea, dichiarò peraltro, circa dieci anni fa, che in Italia la strada delle riforme sarebbe proseguita indipendentemente da un esito elettorale, come se fosse inserito il pilota automatico.
Infine, la presentazione della variegata pluralità di piccoli partiti (UP, Italexit, ISP, PCI, PCL, Vita, ALI) fautori di una visione critica, se non alternativa, degli assi dominanti nel Paese, non ha prodotto frutti. Nessuno ha superato la soglia di sbarramento del 3%. Con i debiti distinguo, concentrandoci cioè su quelli più ‘interessanti’ ai nostri occhi, avremo modo di entrare nel merito già mercoledì, in riunione telematica e all’assemblea di Indipendenza a Roma, sabato 8 ottobre 2022.
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