“Il governo andrà avanti indipendentemente da chi ci sarà”. In questo passaggio, con il suo ‘parlar coperto’, l’attuale presidente del Consiglio, Mario Draghi, alla conferenza stampa ieri di fine anno, ha posto la sua candidatura al Colle.
Il passaggio da Palazzo Chigi al Quirinale, pur caldeggiato da potenti forze economico/finanziarie e geopolitiche esterne al Paese, in primis –e per diversi motivi– a Bruxelles, Parigi e Washington, oltre che in scia da Confindustria (allettata dalla mangiatoia del Pnrr) e formalmente da pressoché tutti i partiti ‘liberal’ di governo e di opposizione, è altamente probabile ma non scontato tanto più se non passasse entro le prime tre votazioni.
Certo è che, se questo cupo scenario (Draghi al Quirinale) dovesse realizzarsi, assisteremo ad un’etero-direzione (ancora più accentuata che in passato) da parte del Colle di ogni compagine si avvicendasse a Palazzo Chigi.
Un (semi?)presidenzialismo garante sia del drenaggio di scambio tra le “condizionali” riforme e i fondi ‘europei’ (in larga parte prestiti) per attuare la riscrittura della fisionomia politico-sociale di questo Paese quale è contenuta nel Pnrr (Piano nazionale di Ripresa e Resilienza) imposto dalla Commissione Europea, sia di una ancora più ferrea collocazione internazionale dell’Italia nel campo geopolitico euro-statunitense a trazione iper-neoliberale.
Questa prospettiva ridurrà i già residuali e largamente modesti margini di manovra di sindacati e partiti ‘di sinistra’. Soprattutto farà emergere in tutta la sua irrilevanza qualsiasi discorso di cambiamento sociale che prescinda da una circostanziata, effettiva, piena rivendicazione indipendentista italiana.
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