“Quando prepareranno i bilanci 2023 i Paesi dovranno tenere conto che la clausola” (di sospensione del patto di stabilità) “verrà disattivata”. Così Valdis Dombrovskis (Commissione Europea) dichiarava a margine dell’Ecofin informale in Slovenia. Come tutti sapevano, e con la pandemia tutt’altro che alle spalle, il bilancio previsionale del 2023 dovrà tenere conto dei vincoli europei alla finanza pubblica.
Messaggio recepito da Draghi e da un parlamento che, ribadendo di fatto lo svuotamento del proprio ruolo, ha approvato la risoluzione di maggioranza sulla nota di accompagnamento al DEF (Documento di Economia e Finanza) e il rispetto delle compatibilità con gli obiettivi di finanza pubblica indicati nella Nadef (Nota di aggiornamento al DEF) 2021.
Al di là del fatto che non vi sia alcun consenso politico sul ‘come’ modificarle (non ci sono neanche i tempi per farlo) è assolutamente realistico che le regole del rigore contabile vengano riproposte tali e quali in un quadro di finanza pubblica disastrato dagli esborsi connessi alla pandemia, dunque con prospettive ancor peggiori per i mostruosi avanzi primari necessari per rendervi ossequio (=drenaggio di risorse dal settore privato attraverso la tassazione e i tagli ai servizi).
Nulla di cui stupirsi per chi abbia anche una superficiale conoscenza dei meccanismi di funzionamento delle istituzioni europee e delle loro linee d’indirizzo. Non si può che stigmatizzare il feticistico culto del ‘rigore’ contabile in spregio alle condizioni materiali delle popolazioni dei diversi Stati, alcune più di altre flagellate, specie nei suoi strati più deboli, dalle cure austeritarie e dalla pandemia.
Che la Grecia fosse null’altro che un laboratorio è cosa nota; che la sua replica in grande stile dovesse abbinarsi al collasso pandemico è invece un esito possibilmente peggiorativo di quello scenario contro il quale, ovviamente, occorre dispiegare ogni energia di opposizione.
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