L’Afghanistan di queste ore ricorda il Vietnam. Si risolve in un nulla di fatto l’intervento militare più lungo degli USA all’estero, sostenuto anche dagli alleati/subalterni della NATO, Italia inclusa. Beninteso, come al solito, in questo caso dopo vent’anni di guerra, c’è un Paese -l’Afghanistan- devastato sotto tanti punti di vista e tante, tantissime morti di resistenti e civili. Argomenti, questi, che non hanno mai interessato le “democrazie” occidentali esportatrici, a suon di bombe, di libertà e civiltà.
Il risibile pretesto di Washington per l’occupazione fu, vent’anni fa, la lotta al terrorismo dopo l’attentato, su cui si dovrà ben ricostruire, alle Torri Gemelle e al Pentagono. Una giustificazione di facciata, quella della lotta al terrorismo, evaporata nel tempo, palesando l’obiettivo di Washington di insediarsi nel sud-ovest dell’Asia, in un Paese strategico per la sua posizione geografica.
In chiave militare, nello scenario di un nuovo conflitto da sempre minacciato dai diversi tenutari della Casa Bianca, si sarebbe potuto chiudere a tenaglia l’Iran, tra l’Iraq occupato ad ovest e l’Afghanistan ad est.
Soprattutto, ‘normalizzato’ il Paese, si sarebbe potuto ‘lavorare’ per creare più che dei fastidi a Mosca, mettendo in fibrillazione la cerchia di Paesi a sud dei suoi confini, e soprattutto a Pechino, grazie anche a quella sottilissima striscia di terra che vede Afghanistan e Cina confinanti, e che arriva a ridosso dello Xinjiang a prevalenza uigure, area su cui le amministrazioni USA lavorano da tempo per creare un focolaio di guerra.
Probabilmente ai piani alti del Pentagono e della Casa Bianca è questo l’investimento per il futuro, l’unica carta rimasta dopo la disfatta militare: rovesciare su Mosca e soprattutto su Pechino l’onere di gestire una situazione potenzialmente esplosiva in Afghanistan, con i Taliban di nuovo al potere e possibili inneschi di guerra civile che gli USA, sulla base delle differenze regionali e interne al variegato fronte della resistenza afghana, potrebbero alimentare per infiammare la regione.
Non è scontato che riescano ma, se questo avvenisse, quell’area si trasformerebbe in una polveriera, probabilmente coinvolgendo una potenza nucleare come il Pakistan. Può non essere estraneo a questi scenari il lavorìo dell’amministrazione Biden per legare gli interessi USA con quelli dell’India in funzione anti-cinese. Non casualmente al confine, ma c’è chi sostiene anche oltre confine, in territorio afgano, la presenza militare cinese, con relativi pattugliamenti, è di molto aumentata. Ma Pechino, non da oggi, sta soprattutto investendo su progetti infrastrutturali con i capi Taliban ed è chiaro l’intendimento di coinvolgere le nuove autorità politiche prospettando la condivisione dei benefici derivanti dalla Via della Seta.
Intanto la cronaca di questi giorni, dopo il precipitoso ritiro militare degli Stati Uniti, sta accorciando sempre più rapidamente le previsioni d’oltre Atlantico sul ritorno al potere dei Taliban. L’amministrazione Biden, scriveva ieri il Washington Post, stimava che dovesse essere anticipata la previsione della caduta di Kabul rispetto ai 6-12 mesi previsti in precedenza, alla luce del ritiro delle truppe statunitensi dal Paese. Oggi, dopo la caduta di Ghazni (150 chilometri da Kabul), il decimo capoluogo di provincia a cadere nelle mani dei Taliban in una settimana, l’arrivo a Kabul è paventato entro un mese. Forse anche meno.
12 agosto 2021
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