Sulla vicenda Moro tendono a prevalere tre atteggiamenti. Il primo è da celebrazione rituale: un atto strumentale, ‘politicamente corretto’, con annesso vuoto esercizio di retorica, scandito negli anniversari del sequestro e del ritrovamento del corpo dello statista democristiano. Il secondo è di indifferenza per una storia vista come democristiana e ormai storicizzata (e qui converge anche chi lo ricorda come un ‘nemico di classe’). Il terzo (minoritario) è apologetico e ne enfatizza il pensiero e l’azione di propugnatore, ancorché solitario, della dignità e della sovranità nazionale, tessitore di un disegno di autonomia nei rapporti con gli USA e di affermazione degli interessi italiani di fronte al processo di costruzione unionista europea anche nel passaggio dell’allora imminente (marzo 1979) introduzione del Sistema Monetario Europeo, battistrada dell’Unione economica e monetaria dell’Unione Europea (1 gennaio 1999).
Se è bene mantenere un ‘sano’ distanziamento culturale e politico dai primi due non equivalenti atteggiamenti (nel secondo è possibile, ben articolando la vicenda Moro, determinare degli scollamenti…), il terzo è da prendere in considerazione, purché ci si liberi dalla zavorra delle forzature, delle ‘ricostruzioni di comodo’ comunque connotate, friabili sul piano del riscontro storico e a ben vedere controproducenti per le prospettive politiche da perseguire nel nostro tempo.
Ricostruire le dinamiche del sequestro di Aldo Moro, dove sia stato tenuto prigioniero, le fasi della trattativa, ‘come’ è maturato il tragico epilogo che sino all’ultimo sembrava potesse essere ben diverso, non è affatto secondario per comprendere il ‘chi di ultima istanza’ ne ha voluto la morte e di conseguenza i “perché”.
Nel gennaio 1978, pochi mesi prima del sequestro, Moro scrive per “Il Giorno” un articolo (“A noi tocca decidere in piena autonomia”) che il quotidiano decide di non pubblicare “per motivi di opportunità”. Moro esprime con pacatezza la sua irritazione nei confronti del governo degli Stati Uniti per i “giudizi espressi” –e relative modalità di comunicazione– “sugli sviluppi della politica italiana e la possibilità di accesso dei comunisti al governo del paese” parlando di “vivaci polemiche” e di “qualche nuova ragione di tensione”. Moro non dubita della “lealtà” con la quale il Partito Comunista Italiano “ha corrisposto con una scelta, quella di accettare la Nato, frutto, più che di vocazione, di rigoroso realismo politico” di fronte alla situazione nuova, alla grave emergenza del Paese. Pur ribadendo la natura circoscritta dell’accordo con il PCI (“riscontriamo delle diversità non trascurabili ed escludiamo una sorta di generale alleanza politica con il Partito Comunista, della quale mancano le condizioni”) afferma che “a noi tocca decidere, sulla base della nostra conoscenza, in piena autonomia, ma con grande equilibrio e senso di responsabilità”, ritenendo “possibile raggiungere una positiva concordia sui programmi ed un grado di intesa tra le forze politiche e sociali” per “far fronte all’emergenza” e “sperimentare un costruttivo rapporto tra partiti molto differenziati, che la realtà della situazione obbliga a non ignorarsi ed a non paralizzarsi, provocando con ciò la paralisi, e forse peggio, dell’Italia”.
Ecco, ancora una volta la politica estera come cinghia di trasmissione e cartina al tornasole di ‘quale’ politica interna. La mutazione genetica in senso occidentale e atlantico del PCI era ad uno stadio molto avanzato per ritenere che a Washington fosse davvero temuto un suo inserimento nell’area di governo. Come per il PSI negli anni Cinquanta, il modo di relazionarsi del Dipartimento di Stato e dell’ambasciata USA a Roma si dispiegava tra timori, diffidenza e prudenza sul proscenio, tanto necessari ‘dietro le quinte’ per sempre maggiori sollecitazioni e più significative richieste di affidabilità in cambio della prospettiva di più rassicurate aperture.
Snodo importante la figura di Altiero Spinelli. Se, verso il PCI, non sono da escludere centrali maccartiste di sfegatato e pregiudiziale anti-comunismo, queste non avrebbero potuto operare sino alla fine in contrasto con la direzione prevalente d’indirizzo a Washington.
L’europeismo di Moro, poi, era un fatto, connotato da una critica che occhieggiava a sbocchi federalisti, perlomeno per alcuni ambiti.
E i rapporti con gli Stati Uniti? Emerge con Moro negli anni (a partire almeno da piazza Fontana, dicembre 1969) un tentativo di secondo neo-atlantismo, dopo il primo –tra la fine degli anni Cinquanta e gli inizi degli anni Sessanta– dell’asse Gronchi-Mattei e Fanfani gravitante. Questi tentativi per un accredito migliore nelle relazioni oltre Atlantico non solo produssero poco o nulla, ma attivarono avversioni e ostilità, oltre che da parte degli Stati Uniti, anche da altre Potenze (in primis, ad analogo livello, da Gran Bretagna, Francia, Israele) che nei maggiori spazi di autonomia dell’Italia nel Mediterraneo, in Africa e nel mondo arabo vedevano un danno ai propri interessi. Il destino di Moro così riecheggia quello di Mattei. Su questi versanti va approfondita la conoscenza storica ed è necessario ragionare per comprendere le conseguenze di ieri sull’oggi, la portata ancora attuale –quantunque di molto aggravata– di certi ‘nodi’ e quali conseguenti prospettive perseguire. (fine)
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Piazza Fontana, 12 dicembre 1969
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