Un anno fa l’assassinio di Qassem Soleimani

Nella notte tra il 2 e il 3 gennaio del 2020, in un attacco aereo ordinato dal presidente statunitense Donald Trump, veniva assassinato a Baghdad (Iraq) Qassem Soleimani, un’esistenza da combattente iniziata poco più che ventenne da soldato e conclusa come Generale della Divisione al-Quds (unità speciale dei Guardiani della Rivoluzione all’estero).

Era da poco atterrato all’aeroporto, in una missione diplomatica ufficiale che includeva una negoziazione –assolutamente mal vista a Tel Aviv e a Washington– con le autorità saudite per una riduzione delle tensioni tra i due Paesi e nella regione. Chi ha deciso di ucciderlo, ha ritenuto di spazzarla via e di distruggere o quantomeno debilitare fortemente il lavoro politico-militare da decenni in corso. È trascorso un anno, e la solidità ed il radicamento di questo lavoro politico mostrano la loro robustezza nonostante la scomparsa di colui che ne era considerato il principale regista o quantomeno tra i più significativi.

Soleimani si era distinto nel coordinare sul campo le forze militari iraniane, siriane, russe, libanesi, irachene nella guerra di liberazione di ampie porzioni territoriali cadute in Iraq e in Siria sotto il giogo dei terroristi salafiti-wahabbiti sostenuti (chi a corrente alternata, chi in modo continuativo) dalle petromonarchie dispotiche del Golfo, dalla Turchia e dalle potenze occidentali, in primis Stati Uniti e Israele.

Più in generale non è mai mancato il sostegno politico, militare, economico/finanziario di Teheran, senza discriminazioni religiose, ai governi popolari legittimi e ai movimenti di resistenza e liberazione, dal Libano (dove robusta è l’intesa, da moltissimi anni, tra Hezbollah e la componente maggioritaria cristiana del generale Aoun), allo Yemen (sostegno agli Houti), alla Palestina (sostegno a sciiti e sunniti), alle maggioranze sciite in Arabia Saudita e nel Bahrein, fino ad arrivare all’Afghanistan e al Pakistan, per non tacere dell’impegno sul versante diplomatico internazionale con Paesi come Russia, Cina, Venezuela: di questo sostegno e di questo impegno Soleimani è stato interprete di spicco.

Alla sua morte, in tante città del mondo arabo, nelle strade e nelle piazze, si è espresso il tributo di stima. Milioni e milioni i partecipanti alle tante manifestazioni protrattesi per tre giorni in tutto l’Iran, funerali a Teheran inclusi, di un’imponenza superiore alle pur imponenti manifestazioni per la morte di Khomeini nel 1989, tanto da obbligare gli stessi giornalisti dell’apparato massmediatico dominante euro-atlantico a definirle –di fronte all’evidenza– «immense», «oceaniche», «inimmaginabili».

Quando corsero voci che lo davano come candidato alle future elezioni presidenziali, ed era dato per certo che sarebbe stato eletto, fu lo stesso Soleimani a scrivere in una lettera (poi divenuta pubblica) alla Guida Suprema Ali Khamanei, che pure caldeggiava e avrebbe tanto apprezzato la sua candidatura, di essere «nato soldato» e che sarebbe morto «da soldato» con i suoi «soldati».

Alla moglie da tempo aveva lasciato un foglietto con su scritto: «Mia cara moglie, ho individuato il mio luogo di sepoltura nel cimitero dei martiri di Kerman. Muhammad (il fratello, ndr) lo sa. La mia lapide deve essere semplice, come i miei amici martiri. Su di essa scriveteci “Soldato Qassem Soleimani”, senza ulteriori frasi».

Ai funerali, presente anche la figlia Zeinab a sua volta intervenuta, la moglie gli si è idealmente rivolta con queste parole: «Sei andato in cerca del martirio sulle montagne e nei deserti. E infine il martirio ti ha aperto le braccia… Questa bandiera non cadrà a terra, mio Generale».

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