23 maggio 1992: strage di Capaci. Uccisi il giudice Giovanni Falcone, la moglie e tre dei sette uomini della scorta. 500 kg di esplosivo contenuto in tredici bidoncini in un cunicolo scavato sotto la strada, utilizzando un condotto delle acque reflue in un tratto dell’autostrada Palermo-Capaci. Il caricamento del cunicolo avvenne nella notte dell’8 maggio. Da quel giorno tutto fu pronto per l’attentato. Sulla base di testimonianze, il giorno della strage, sull’area dello svincolo dell’A29, un aereo di piccole dimensioni, verosimilmente un Piper, passava e ripassava nel punto dove di lì a poco sarebbe avvenuta l’esplosione, e rimase presente al passaggio del corteo di macchine con Falcone. Ad un successivo controllo dei piani di volo di tutti gli aeroporti siciliani non risultò alcunché al riguardo. Sempre sulla base di testimonianze, il giorno precedente, proprio nell’area della strage, non vicino al cunicolo, «era stato notato un furgone Ducato bianco e alcune persone che apparentemente erano concentrate a eseguire dei lavori. Fu anche deviato il corso delle automobili di passaggio, furono usati birilli per spartire il traffico. (…) Il punto è che per Brusca e compagni non c’è alcuna necessità di lavorare lungo la corsia, il loro lavoro si era concentrato a livello dell’imbocco del cunicolo, al di sotto del livello stradale». Dopo l’attentato, si legge in un documento della Procura di Caltanissetta, come scrive Stefania Limiti [“Doppio Livello. Come si organizza la destabilizzazione in Italia” (2013)], non erano in corso lavori «né in forma diretta né in regime di subappalto da parte dell’Anas, dell’Enel, della Sip e della Sirti» nell’impiego di uomini e mezzi indicati dalle diverse testimonianze. Insomma, viene esclusa «qualsiasi attività di manutenzione stradale, ordinaria e straordinaria».
Luca Tescaroli, magistrato nei processi di Capaci e dell’Addaura, studiando le dinamiche della strage sull’A29, ha più volte parlato «di qualcuno intervenuto successivamente al caricamento per rinforzare la carica con esplosivo di potenza più dirompente rispetto a quello già presente nei contenitori» (ibidem, p. 428). Pur senza prove, ha visto l’intervento di qualcuno esterno al gruppo del commando mafioso in azione. Qualcuno che opera certamente all’insaputa di detto gruppo. Il 17 maggio 2012, in un’intervista a Rainews
il procuratore nazionale aggiunto della Direzione nazionale antimafia, Gianfranco Donadio, con le prudenze del caso ritorna su questa oggettiva doppia bomba. Nella parte dedicata alla strage di Capaci del suo libro sopra citato, Limiti effettua un’accurata disamina, alla luce delle certezze tecniche dei periti e delle dichiarazioni dei principali pentiti che hanno partecipato alla preparazione dell’attentato, da cui si evincono delle conclusioni: chi è ricorso al raddoppiamento, mirava alla certezza dell’assassinio del giudice non essendoci la sicurezza che, partito da Punta Raisi, la macchina di Falcone mutasse posizionamento rispetto alle altre due di scorta in considerazione peraltro della prevedibile andatura a forte velocità (i circa 500 kg assicuravano la devastazione, ma non la certezza di colpire l’obiettivo). Lo stesso Giovanni Brusca che pigiò il pulsante del telecomando, rimase colpito da come si fosse potuto produrre una devastazione su un tratto tanto lungo (cfr. Saverio Lodato, “Ho ucciso Giovanni Falcone…”. La confessione di Giovanni Brusca, Mondadori). Emerge inoltre che il rinvenimento di una quantità più consistente di un tipo di esplosivo militare non in dotazione del commando mafioso, di cui i pentiti dichiarano di non sapere alcunché, rimanda ad altra provenienza e ad altri interessi. Chi è intervenuto sul manto stradale ha così puntato ad un’efficacia dell’operazione al millimetro.
Oltre a questo, oltre ad interrogativi che emergono da perizie effettuate (chimiche, genetiche…) ci sono dei quesiti più generali: perché “Cosa Nostra” assassina Falcone a Capaci? Chi/cosa e perché blocca Riina dal far eseguire a Roma l’omicidio del giudice che spesso girava a piedi e a volte senza scorta, e dove infatti era giunto ed era pronto ad entrare in azione un commando di quattro uomini scelti che avrebbero dovuto ammazzarlo per strada a colpi di kalashnikov? Perché preferire un’operazione ben più complessa a Capaci? Perché l’arrivo di quel contrordine? Un superpentito, Gaspare Spatuzza, ha definito quel “cambio di programma” con queste parole: «La genesi di tutto è quando si decise di non uccidere più Falcone a Roma con quelle modalità e si torna in Sicilia: lì cambia tutto e poi non c’è solo mafia». Non c’è solo mafia! Il che s’inscrive e ha forse a che vedere con il crollo generale del ‘vecchio’ sistema-Paese che si stava consumando (anche) in Italia in quella fase di passaggio dal post Guerra Fredda ad un nuovo scenario euro-atlantico?.
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