Statuto dei lavoratori: una riflessione sul passato, una sul presente di fase

50 anni fa, il 20 maggio 1970, diventava legge in Italia lo “Statuto dei lavoratori”. Più di vent’anni di lotte, di sofferenze, di sangue, per giungere al riconoscimento di diritti e tutele fino ad allora inesistenti, nonostante princìpi fondamentali previsti in Costituzione ma rimasti lettera morta. Quella legge arrivava in un’Italia attraversata, in modo particolare sul finire del 1969 (l’ “autunno caldo”), da manifestazioni e proteste di milioni di lavoratori per nuovi rapporti con i datori di lavoro, per salari adeguati, per le 40 ore settimanali, per la rappresentanza, eccetera.
Eppure quella legge non ebbe l’avallo del PCI che si astenne per le gravi carenze che conteneva: non c’erano garanzie per i lavoratori delle aziende sotto i 16 dipendenti, non c’erano norme contro i licenziamenti collettivi di rappresaglia. Nulla però il PCI obiettò sul diritto di rappresentanza sindacale aziendale riconosciuto ai soli sindacati maggiormente rappresentativi o a quelli firmatari di accordi a livello nazionale o provinciale, ad escludere così sindacati autorganizzati, indipendenti o gli stessi consigli di fabbrica e dei delegati che avevano svolto un ruolo fondamentale nelle lotte.
Di lì a non molti anni sarebbe cominciata l’erosione progressiva sino alla cancellazione di molte di quelle conquiste e diritti, ad arrivare all’oggi, a 50 anni dopo, senza che questa china si sia non invertita ma nemmeno arrestata. Il lavoro si connota con sempre minori garanzie, se non precario, malpagato, direttamente al nero, con quello femminile in larghi ambiti ancor meno garantito. Fuori da questo perimetro, disoccupazione ed emigrazione. Da decenni questa china si è accentuata quanto più il processo di integrazione europea avanza con le sue controriforme che investono tutti gli ambiti della vita sociale, rese possibili dagli interessi dell’alta finanza e delle grandi imprese multinazionali incistati nella ‘legge fondamentale europea’, dalle compiacenze interessate di governi (di centrodestra, centrosinistra o ‘tecnici’ che siano) e dalle connivenze di sindacati.
Dalle “TESI SULLA QUESTIONE NAZIONALE” di Indipendenza (n.30). La tendenza ‘globalista’, denazionalizzatrice, se non proprio anti-nazionale del capitalismo contemporaneo, colpisce direttamente ed in misura crescente gli interessi delle classi lavoratrici. Infatti, mentre il capitale e i capitalisti migrano, si ‘globalizzano’, a restare all’interno dei confini fisici della Patria, della nazione, sono i salariati licenziati, i cassintegrati, i disoccupati e quelli che non troveranno mai occupazione, gli ‘inoccupabili’, la cosiddetta ‘popolazione eccedente’; in secondo luogo gli operai e gli impiegati che difendono disperatamente il lavoro che ancora hanno e lottano contro gli effetti perversi della ‘razionalizzazione’ e della deindustrializzazione, contro la chiusura delle fabbriche e delle imprese; in terzo luogo, gli artigiani, i piccoli industriali, gli imprenditori e tutti coloro che senza certezze di alcun genere impegnano contemporaneamente il proprio lavoro e le proprie risorse economiche e si dibattono in balìa delle conseguenze delle costrizioni del sistema economico mondiale, del suo caos permanente, degli effetti della concorrenza senza regole, dell’incertezza degli sbocchi esterni, delle difficoltà di finanziamento, dell’enormità del costo del denaro, della ‘libera’ circolazione di merci e capitali, del dominio del dollaro. Qui si materializza l’essenza sociale, costitutiva della patria, l’idea moderna di Nazione. È chiaro che proprio la difesa degli interessi particolari di classe deve spingere i lavoratori ad assumere la portata nazionale dello scontro –intesa come rilevanza e caratterizzazione nazionale della conflittualità tra interessi di classe e tendenze internazionalizzatrici e globaliste del capitalismo.
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Rivista patriottica e sovranista italiana impegnata in una battaglia di liberazione sociale dall'egemonia euroatlantica rifacendosi ai valori della Resistenza
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