Dopo il martirio di Qassem Soleimani

Quando corsero voci che davano Qassem Soleimani come futuro candidato alle elezioni presidenziali in Iran, nella lettera (poi divenuta pubblica) alla Guida Suprema, Ali Khamanei, scriveva di essere «nato soldato» e che sarebbe morto «da soldato» con i suoi «soldati». Alla moglie da tempo aveva lasciato un foglietto con su scritto: «Mia cara moglie, ho individuato il mio luogo di sepoltura nel cimitero dei martiri di Kerman, Muhammad (il fratello, ndr), lo sa. La mia lapide deve essere semplice, come i miei amici martiri. Sopra di essa scriveteci “Soldato Qassem Soleimani”, senza ulteriori frasi». La moglie, commemorando il marito, presente anche la figlia Zeinab poi intervenuta a sua volta, ha così parlato ai funerali: «Sei andato in cerca del martirio sulle montagne e nei deserti. E infine il martirio ti ha aperto le braccia… Questa bandiera non cadrà a terra, mio Generale». Chi ha ucciso Soleimani, ha fatto di un uomo prima un martire e poi una leggenda, non solo in Iran.

Sono diversi milioni i partecipanti ai funerali oggi, a Teheran, di Qassem Soleimani, generale della Divisione al-Quds (l’unità speciale dei Guardiani della Rivoluzione all’estero), assassinato nella notte tra il 2 e il 3 gennaio scorso in un attacco aereo statunitense a Baghdad (Iraq). La processione funebre è partita significativamente dall’università della capitale: una marea umana è affluita nella capitale dell’Iran, che non è stata in grado di accogliere tutti. Bloccate per chilometri e chilometri anche le strade che portano in città. Una risposta popolare all’ennesimo crimine dell’amministrazione statunitense di turno: anche chi dell’apparato massmediatico dominante era presente sul posto ha definito il corteo funebre «immenso», «oceanico», «inimmaginabile».
Del resto, già solo poche ore dopo l’assassinio, il nunzio apostolico in Iran, arcivescovo Leo Boccardi, aveva riferito dell’«incredulità, dolore e rabbia (…) le prime reazioni a Teheran alla notizia della morte del Generale Soleimani. Le grandi manifestazioni, che si sono svolte oggi in molte città dell’Iran dopo la preghiera del venerdì, hanno espresso bene questi sentimenti» e parlato di una tensione «arrivata ad un livello che non si era mai visto prima e questo preoccupa e complica ancora di più la situazione nella regione che appare davvero incandescente».

L’Iran sta rendendo onore in varie città al generale Soleimani con cerimonie, che non furono organizzate a tale livello neppure per la morte di Khomeini nel 1989. A Teheran, a guidare le preghiere è la Guida suprema spirituale dell’Iran, Ali Khamenei. Le immagini del funerale dell’«amato martire» sono trasmesse in diretta dalla televisione di Stato. Per tutta la folla oceanica si invoca vendetta e si scandiscono slogan contro Stati Uniti, Gran Bretagna e Israele.
Tra le delegazioni internazionali ci sono dirigenti di organizzazioni sciite, sunnite e cristiane di tanti Paesi. Presente anche il massimo esponente della palestinese (sunnita) Hamas Ismail Haniyeh, con il suo vice Salah al-Aruri, una presenza che rischia di provocare frizioni con i principali Paesi sunniti, Egitto ed Arabia Saudita, che la sostengono (a fasi alterne) finanziariamente. A Gaza ed anche a Teheran si dà per certo che Haniyeh sarà ricevuto dalla stessa Guida suprema, Khamenei. Una presenza, questa ad esempio di Hamas, di un rilievo enorme che testimonia il lavoro politico-militare svolto da Soleimani nel sostegno (politico, militare, economico/finanziario), senza discriminazioni religiose, ai movimenti di resistenza all’imperialismo e ai governi dispotici non solo della penisola arabica. Ovunque le armate di Soleimani liberavano le zone conquistate dai terroristi salafiti-wahabbiti (in Iraq e in Siria) –sostenuti (chi a corrente alternata, chi in modo continuativo) da petromonarchie del Golfo e potenze occidentali– la libertà e il rispetto di qualunque confessione religiosa tornavano ad essere diritto primario. Dal Libano (dove forte è l’intesa governativa tra Hezbollah ed i cristiani del generale Aoun, la componente maggioritaria nel Paese), allo Yemen (sostegno agli Houti), alla Palestina (sostegno a sciiti e sunniti), alla Siria, all’Iraq, alle componenti sciite in Arabia Saudita, nel Bahrein, fino all’Afghanistan e al Pakistan, ovunque si dispiegava questo lavoro politico Soleimani era la figura simbolica di riferimento. C’è poi tutto il versante diplomatico internazionale che vedeva Soleimani impegnato, solo massmediaticamente come unica figura di spicco (Russia, Cina, Venezuela…).

Intanto, sull’Ansa di oggi (6 gennaio) apprendiamo la notizia del grafico pubblicato nell’edizione odierna dal diffuso “tabloid” israeliano Yediot Ahronot. Vi compaiono i volti delle figure più significative assassinate nella Regione negli ultimi anni (fino all’assassinio del generale iraniano Qassem Soleimani) e, sempre “nel mirino”, i prossimi: Hassan Nasrallah (Hezbollah), Sallah al-Aruri e Mohammed Deif (Hamas) e Ziad Nakhale, esponente della palestinese Jihad islamica.

Ieri, in un’intervista alla Cbs, il presidente statunitense, Donald Trump, ha replicato al voto del Parlamento iracheno che ha chiesto la fuoriuscita dal Paese di tutti i contingenti militari stranieri facenti parte della coalizione contro lo Stato islamico. Un voto che obbliga il governo a preservare la sovranità del Paese e a mettere in atto la risoluzione.
Trump ha dichiarato che resterà un contingente di militari USA per «controllare l’Iran». Pronta la replica del presidente iracheno Barham Salih: «Il presidente degli Stati Uniti non ha chiesto il permesso dell’Iraq per far rimanere le truppe americane nel Paese con l’obiettivo di controllare l’Iran», presenti invece nel Paese nell’ambito di un accordo tra Baghdad e Washington con la missione specifica di combattere il terrorismo salafita-wahabbita. «Si attengano a questo accordo», ha aggiunto Salih. A stretto giro la controreplica di Trump: se gli USA lasciassero l’Iraq gli imporranno «grandi sanzioni» e comunque il Paese dovrà prima pagare miliardi e miliardi di dollari come risarcimento per la costosa costruzione della base USA a Baghdad.

In scia il governo italiano. Il presidente del consiglio uscente Conte, come si ricorderà, il 27 agosto scorso, durante le ore ancora convulse sulla nascita o meno di un governo M5S-PD,fu re-investito nel ruolo con un endorsement, via twitter, da Trump (un atto inusuale più nella modalità –pubblica– che nel merito e nei tempi, rispetto alla storia coloniale, di sudditanza agli Stati Uniti del nostro Paese). In quel ‘cinguettio’ il presidente USA, dopo aver sottolineato che «Giuseppi Conte» (nel testo Trump scrive proprio «Giuseppi») «lavora bene con gli USA» ed espressa la speranza che rimanesse presidente del consiglio, aggiungeva che per Conte «sembra che si stia mettendo bene». Ebbene anche lui, Conte, ancora una volta si mette in scia dell’alleato/padrone statunitense. Il sito della presidenza del consiglio riferisce della sua conversazione telefonica con il Presidente dell’Iraq Barham Salih. Con linguaggio formale Conte rinnova «il sostegno italiano, già in corso da anni, alla stabilizzazione del Paese e al contrasto al terrorismo». Tradotto: l’Italia, nonostante il voto contrario del Parlamento iracheno, rimane nel Paese finché lo vorrà Trump. Con il che il governo pone i militari italiani (oltre 900) presenti in Iraq come forza ormai non più richiesta, e quindi occupante, e li espone ad essere possibile obiettivo militare. Insomma l’Italia è dentro una situazione già di guerra; rimanere militarmente in un Paese che non ti vuole, ed il cui Parlamento a maggioranza chiede la fuoriuscita, è di per sé una ‘dichiarazione di guerra’.
Assolutamente deboli le dichiarazioni del ministro degli Esteri Luigi Di Maio su Facebook riguardo la situazione in Iran e Libia. La sua polemica è con Salvini che, elmetto in testa, si è ancora una volta allineato all’alleato/padrone USA sostenendo apertamente e subito l’assassinio terroristico politico ordinato dalla Casa Bianca. Il sedicente sovranista Matteo Salvini, sempre più sovranista atlantico in politica estera, liquida gli interessi nazionali dell’Italia, esterna la sua sudditanza al Paese più guerrafondaio della Storia contemporanea, gli Stati Uniti, ed espone i militari italiani con le sue dichiarazioni –unitamente alla fattiva connivenza servile del governo– a ritorsioni. Ora Di Maio replicando a Salvini, che vorrebbe pure l’intervento militare in Libia, ha affermato: «Chi ancora crede che la strada sia la violenza, è fermo al passato o non ha ancora compreso le lezioni dalla storia. E, quel che è peggio, sta esponendo tutti gli italiani a un pericolo di ritorsioni. Ora non è più il tempo di rischiare morte, terrorismo, ondate migratorie insostenibili, ora è il momento di scommettere sul dialogo, sulla diplomazia e sulle soluzioni politiche». Dopo di che nulla dice al presidente del consiglio del governo di cui lui e la sua forza politica, il M5S, è parte che fa adesso in Iraq proprio quello che lui stigmatizza per il passato: «In tanti conflitti, in tante scelte sbagliate, a partire dalla guerra in Libia nel 2011 e dagli errori già compiuti in Iraq, c’è scritto ciò che non dobbiamo ripetere». Non a caso preoccupazioni erano giunte già a pochissime ore dall’assassinio di Soleimani da alcune delle più alte autorità militari italiane. «Non c’è dubbio che di fronte a questa azione l’Iran dovrà reagire, non può perdere la faccia. In che modo? Non lo sappiamo, ma è chiaro che l’Italia è particolarmente esposta», aveva detto dice il generale Vincenzo Camporini, ex capo di stato maggiore della Difesa. Cui aveva fatto seguito il generale Leonardo Tricarico, ex capo di stato maggiore dell’Aeronautica: «gli USA con l’uccisione del generale Quasem Soleimani hanno colpito un’icona. È un’ulteriore dissennata destabilizzazione dagli esiti incerti, senza apparente logica».

Una folla di milioni di persone ha invaso le strade di Teheran. Le immagini realizzate con un drone sono rapidamente diventate virali nel mondo
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«Nos sumus qui nullis annis vacationem damus et, quod ait ille vir disertissimus, canitiem galea premimus; nos sumus apud quos usque eo nihil ante mortem otiosum est ut, si res patitur, non sit ipsa mors otiosa» (L. Anneo Seneca, Dialogorum liber VIII ad Serenum De Otio)

«Noi siamo quelli che a nessuna età concediamo il congedo, e, come dice quell’uomo eloquentissimo, ‘premiamo con l’elmo anche il capo canuto’; noi siamo quelli per i quali a tal punto non c’è alcun momento di inattività, che –se la cosa è possibile– non è inattiva neppure la morte stessa».

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