Sulla Brexit, nel Labour Party, ‘sovrana’ continua a regnare la confusione.
Dopo mesi di incertezze e ondeggiamenti a tutto campo su quale fosse la posizione del partito, si potrebbe obiettare che il massimo dirigente del Labour, Jeremy Corbyn, in modo condivisibile o meno l’abbia chiarita con la lettera aperta di pochi giorni fa esprimendosi per un secondo referendum sull’uscita del Regno Unito dalla UE con o senza accordo, che contenga insieme l’opzione se rimanere nell’Unione Europea (UE) o meno. In tali termini si è rivolto al prossimo primo ministro, che uscirà dalle primarie Tory.
Nell’eventuale campagna referendaria il Labour sosterrà l’opzione ‘remain’, cioè restare dentro la UE, “sia contro una Brexit no deal, che contro un’uscita con un accordo dei Tory, che non protegge l’economia e i posti di lavoro”. Chiaro?
No, perché lo stato confusionale non si placa. Si è ‘contro’ l’uscita perché al governo ci sono i Tory che hanno piegato il Paese con anni di “austerity” –e di qui la richiesta di elezioni generali– ma se, molto improbabilmente, ci fosse una vittoria del Labour, cosa ne sarebbe della Brexit e delle negoziazioni con Bruxelles? A questo punto Corbyn ripropone il piano di Brexit del Labour come “un’alternativa, che può unire il Paese”: sì all’unione doganale, sì al mercato unico e protezione dei regolamenti e ambientali e dei diritti dei lavoratori.
Domanda: cioè?
E nel Labour continuano le interpretazioni e le polemiche tra le diverse anime che non capiscono…